lunedì 5 novembre 2012

Riflessioni sull’incontro tra gli attivisti che si è tenuto ieri


Pubblicato anche su Asinus Novus.
Ieri ho partecipato ad un incontro tra gli attivisti di Roma e dintorni, sia singoli che appartenenti a varie associazioni. Un incontro organizzato da Grazia Mordenti, che sentitamente ringrazio, la quale ha avvertito l’esigenza di fare alcuni chiarimenti, nonché il punto della situazione, dopo i recenti fatti avvenuti a Correzzana durante la manifestazione contro la Harlan (su cui, peraltro, continuano ad esserci pareri discordanti perché non si è capito bene quali fossero le cause che hanno generato gli effetti resi noti e sulle quali, non essendo stata presente, non posso pronunciarmi). La questione che è stata urgentemente posta ieri però mi è sembrata sostanzialmente ridursi ad una e questo mi ha lasciato un po’ l’amaro in bocca perché mi ha dato l’impressione che, per quanto tutti i partecipanti siano mossi da un sincero entusiasmo e volontà di realizzare qualcosa di davvero significativo per la liberazione, ci sia carenza di preparazione teorica e di consapevolezza in merito agli obiettivi a lungo termine. E questo, secondo me, è gravissimo. Non si può fare attivismo cieco perché sarebbe come menare le mani senza sapere cosa si sta colpendo. E non basta dire che si è tutti impegnati per la liberazione animale se prima non si capisce in cosa consista questa liberazione. Prego chi legge di proseguire oltre senza darmi della supponente in maniera affrettata: io sono con tutti voi, io sono con chiunque voglia liberare gli animali umani e non umani dalle strutture del dominio, ma ieri si sono evidenziati alcuni errori troppo grossolani che mi preme mettere in luce, non già per criticare e basta (ché io non sono nessuno e non sono portatrice di nessuna verità), ma per costruire insieme qualcosa di significativamente solido e duraturo nel tempo ed anche per riportare comunque umilmente le mie impressioni. Qualcosa che davvero possa proseguire nel segno di una società nuova, finalmente liberata e quindi libera, e non che sia soltanto il far chiudere un singolo allevamento per mere questioni amministrative (com’è stato per Green Hill).
Come prima cosa ieri, sempre facendo riferimento a quanto avvenuto a Correzzana il 20 ottobre scorso, la maggioranza dei presenti si è dichiarata unanime nell’accogliere nella galassia attivismo (più che mai variegata ed ognuna con precise modalità di strategie) qualsiasi persona manifesti una seppure minima sensibilità animalista, senza tener conto dell’appartenenza politica. Si è ridotta insomma, a mio avviso abbastanza gravemente, la questione dell’antispecismo politico, ad una mera questione di tesseramento partitico. E, cosa ancor più grave, si è parlato di fascismo solo connotandolo come quella ideologia mussoliniana di cui, purtroppo, la storia del nostro paese (e non solo) è stata protagonista. Non è così. Il fascismo non è stato solo un limitato e triste periodo della nostra Storia, bensì è qualcosa che perdura ancora oggi nella sua estensione del termine ogni qual volta si attuano i dispositivi di dominio ed oppressione dell’altro. Persino i più aggiornati dizionari oggi riportano il doppio significato del termine “fascismo”. Quindi, fascista non è di default chi è iscritto alla destra piuttosto che alla sinistra, bensì colui che riproduce e conferma determinati meccanismi di dominio, quale sia lo schieramento politico cui appartiene. Fascista è chi a casa, nel privato, tiranneggia la propria compagna o compagno (ché il fascismo non è solo di segno maschile, pure se spesso coincide con il fallocentrismo e maschilismo), chi mostra o mette in atto atteggiamenti e comportamenti razzisti viziati dal pregiudizio, chi riconosce un principio di autorità superiore, chi nei fatti si appella appunto ad un certo autoritarismo per far valere il proprio potere e dominio. Inoltre, la politica non è solo una questione di tesseramento partitico, ma è l’agire in società, è qualsiasi azione sia volta ad un cambiamento dell’assetto sociale o intenda anche metterlo solo in discussione. Criticare l’assetto vigente è già fare politica. Il pensare è un atto politico. Il parlare e lo scrivere sono atti politici (per questo i regimi totalitari vietano persino l’esprimere pareri discordanti e mettono in atto una propaganda per dirottare ed incanalare il pensiero, indebolendone o soffocandone del tutto quella capacità volta ad un’elaborazione critica). Quindi, dispiace sentir dire che l’attivismo non debba essere politico o debba superare la politica, perché l’attivismo è per sua natura esso stesso politico.
Chiarito questo primo punto, mi preme definirne un altro, ossia cosa si debba intendere per liberazione animale e per antispecismo. Mi pare che ieri si sia fatta una certa fatica a comunicare proprio perché non è stata stabilita inizialmente una chiarezza terminologica, essenziale invece quando si comunica, altrimenti se io dico “frutto” intendendo “mela”, mentre l’altro intende “pera” è ovvio che non ci si potrà mai comprendere. Solo una ragazza ad un certo punto (non ricordo il nome) ha sollecitato di far chiarezza su questo punto, ma mi è parso che tutti avessero troppa ansia di concentrarsi solo sull’attivismo pratico, intendendolo come completamente avulso da qualsivoglia teoria a monte (altro errore, ma ci arriverò dopo). Per capire meglio cosa significa liberazione animale (sia dell’animale umano, che non umano, ed è così che io la intendo, chiariamolo definitivamente una volta per tutte) bisogna compiere lo sforzo di immaginarsi una rivoluzione culturale davvero di proporzioni statrosferiche, forse davvero superiore a quella copernicana. Secondo me non abbiamo nemmeno ancora veramente l’idea di cosa significhi, non più di quanto un uomo del 1700 avrebbe potuto immaginare la nostra attuale società digitale. Eppure stiamo lavorando per questo. L’antispecismo, ossia quella teoria e prassi che si propone di abbattere lo specismo, intende proprio, come obiettivo ultimo, a lungo termine, realizzare una società in cui parole come dominio, oppressione, sfruttamento, schiavitù, discriminazione, sessismo, omofobia, razzismo, fascismo quindi nel suo senso più ampio, non significhino più nulla, se non il racconto residuale di qualcosa avvenuto tanto tempo fa ed ora completamente spazzato via. Non ha senso, in questa nuova società definirsi di destra o di sinistra semplicemente perché ormai termini inadeguati ed astorici nel rappresentare il nuovo stato di cose. Per combattere l’attuale specismo/antropocentrismo (termine in chi racchiudo tutto ciò che ho espresso sopra, quindi lo sfruttamento come prassi, il dominio, l’oppressione, la concezione di una società del potere distribuito piramidalmente – metaforicamente e magnificamente rappresentato attraverso l’immagine del famoso grattacielo di Horkheimer) bisogna aver ben chiari in mente quali siano i nostri obiettivi finali quindi, ossia quelli che porteranno alla decostruzione di quella prassi che si è andata strutturando nei secoli e che ha attraversato – cambiando nei modi, ma mai nella sostanza – più o meno tutti i sistemi societari che si sono succeduti nella storia. Se non si comprendono le cause che hanno portato all’attuale sistema (frutto o risultante anche collaterale degli altri che lo hanno preceduto), non si riuscirà nemmeno ad intravedere l’orizzonte verso cui tutti miriamo, se non in maniera molto vaga ed aleatoria. Come se ci si incamminasse lungo un sentiero senza aver chiara la destinazione finale. Ho avuto l’impressione che la maggior parte dei presenti ieri non avesse ben chiaro in mente cosa sia lo specismo in quanto effetto dei dispositivi di dominio antropocentrici che via via si sono andati strutturando nella storia; così come è emersa l’idea abbastanza diffusa che il sistema sia la semplice somma degli individui. Ora io nei giorni scorso ho scritto proprio un articolo in cui spiego che responsabile del sistema è anche il singolo, ma non in maniera automatica come si potrebbe tendenzialmente credere, essendo le dinamiche del dominio qualcosa di infinitamente più complesso del semplice atto dell’acquistare o meno il prodotto di una determinata azienda o multinazionale. Il singolo è responsabile, sì, ma non è la causa dello specismo, è uno dei suoi effetti (e per questo io insisto sul recupero della parola etica e sul percorrimento di un’evoluzione anche etica dell’umanità, diciamo parallelamente ad altre strategie; sia chiaro che io non considero lo specismo come frutto di un pregiudizio morale, ma ritengo che ci si possa appellare anche alla morale e consapevolezza del singolo per smantellarlo e per questo responsabilizzare il singolo, ossia renderlo consapevole, fargli comprendere l’interazione complessa del tutto – e non colpevolizzarlo o aggredirlo – , ritengo possa essere una strada da percorrere, quanto meno non dannosa). Le forme di dominio ed oppressione, paradossalmente, se pure si abolissero i macelli e gli allevamenti, potrebbero continuare in altre e ben più sottili forme. Faccio un esempio assai banale, ma utile a comprendere cosa sto dicendo: in tutta sincerità noi possiamo dire che l’abolizionismo abbia definitivamente spazzato via la schiavità umana? Provate a rispondere. Certo, non esistono più gli schiavi con la catena al piede, non esiste più il commercio dei singoli africani venduti all’uomo bianco come merce, ma la schiavitù è ben lungi dall’essere scomparsa: essa è presente in forme assai più subdole e sottili; essa è presente fra gli operai degli stabilimenti in Cina costretti a lavorare 12 ore al giorno per una paga da fame; essa è presente fra i ragazzi sfruttati nei call-center per una paga irrisoria e senza garanzie a lungo termine; essa è presente intimamente in tutti coloro che si convincono che si debba accettare di essere sottopagati e sfruttati (magari lavorando anche gratis) perché è “meglio di niente”. Il lavoro è schiavitù. E quando parlo di lavoro non mi riferisco certo alle nobili attività, teoriche e pratiche, che l’essere umano è in grado di svolgere, bensì al circolo dei bisogni indotti artificialmente ed artificiosamente dal sistema per costringere il singolo a vivere per produrre e consumare. Questa è schiavitù. Ed il fine ultimo che si pone la liberazione animale è quello di eliminarla una volte per tutte. Vivere per lavorare facendo del denaro il metro di tutto è schiavitù. Ed accettare questo come se fosse un dato di fatto inoppugnabile è schiavitù mentale, ancor peggiore di quella materiale perché impedisce di immaginare uno stato di cose diverso, perché induce il singolo alla rassegnazione rendendolo incapace di intravedere una via di fuga.
Premesso quanto sopra detto, se c’è da andare a liberare un cane rinchiuso dentro una struttura, a me non importa se insieme a me viene il ragazzo con la tessera di Casa Pound o quello appena uscito da un centro sociale perché in quel preciso contestuale contingente obiettivo conta di portare a termine ciò che ci si è prefissi come scopo immediato (aprire la singola gabbia), ma che non ci si dimentichi che la liberazione animale è ben altro e che liberare i cani, ma inneggiare contro l’immigrato o i Rom, in realtà significa remare contro l’obiettivo ultimo e disperdere le proprie energie perché l’effetto del cane in gabbia è causato dal dominio ed oppressione dell’altro da sé (sia esso cane, gatto o extracomunitario).
Attenzione però a non commettere l’errore di pensare che dunque solo chi è di sinistra o simpatizzante comunista possa farsi promotore di una liberazione totale, semplicemente perché, come ho chiarito sopra, non è detto che chi frequenta certi ambienti di sinistra non possa manifestare comportamenti ugualmente fascisti. Quindi non si tratta di escludere alcuni da altri, quando di stabilire quale debba essere l’ideologia migliore per arrivare alla liberazione animale e questa non può essere che una sola: quella che contempla la fine di ogni dominio ed oppressione e che smantelli l’antropocentrismo.
Allora, mettiamola così, a manifestare contro la singola forma di sfruttamento animale (tipo contro la vivisezione ad esempio) o a presidiare il singolo allevamento, circo ecc. per me può venire chiunque, anche chi ha il panino col prosciutto dentro la borsetta o chi prova odio verso una determinata etnia, ma che sappia che ciò non potrà funzionare in vista di una liberazione totale. Perché non me la sentirei di scacciare chi mangia il prosciutto o chi è razzista? Intanto perché scacciandolo do prova io per prima di quell’atteggiamento di autoritaria esclusione che è fascismo inteso nella sua accezione più profonda, secondo poi perché (forse sono ingenua) immagino che chi mostra una certa apertura e sensibilità verso l’animale non umano, abbia dentro di sé i presupposti per poter superare i limiti angusti del proprio pensiero che lo portano ad essere razzista (o maschilista, omofobo). Intendiamoci: a me fa orrore camminare a fianco a chi è omofobo o razzista, ma se lo allontano divento io stessa artefice di quel fascismo che tanto deploro; se invece lo avvicino, mi lascio avvicinare, magari gli mostro il paradosso del voler liberare il cane ed al contempo inneggiare all’odio verso i Rom (per dirne una) o verso l’omosessuale, magari contribuisco a fargli comprendere i limiti del suo pensiero. Ho fiducia in quel metodo ermeneutico applicato alla comprensione della schiavitù animale di cui parlavo nell’articolo precedente.
Ultima cosa e poi chiudo: ieri quasi tutti i presenti hanno dato prova di una certa resistenza al solo sentir parlare di teoria. Come se l’attivismo fosse altro e dovesse essere completamente avulso dalla filosofia e pensiero teorico. Questo è un errore gravissimo. Ultimamente io ho parlato spesso dell’esigenza di dover fare attivismo, ho invitato a scendere sulla strada, ma sempre secondariamente e dopo aver acquisito una certa preparazione teorica. Se io imparo a guidare ma non conosco il codice della strada, rischio di andare a schiantarmi al primo incrocio che trovo. E questo perché guidare la macchina è qualcosa di molto più complesso del pigiare l’acceleratore ed il freno all’occorrenza. Guidare è comprendere il traffico e rispettarne il flusso secondo determinati parametri e per questo mi serve prima uno studio teorico. Inoltre se la nostra cultura è specista è anche perché, purtroppo, tutta la filosofia che ci ha preceduto ha contribuito ad informare una certa idea di mondo (pensiamo solo al peso che ha avuto la definizione dell’animale come automa di Cartesio ed in generale la concezione meccanicistica della natura e del suo essere una sorta di laboratorio nel quale dover sperimentare qualsiasi fenomeno); quindi il pensiero non è meno importante dell’azione, ma sempre la precede. Trovo, e me ne dispiaccio molto, che ci sia molta impreparazione teorica nell’attivismo italiano (almeno di Roma e dintorni, in generale dico, poi magari i singoli saranno pure preparatissimi), che abbia prevalso il diffuso convincimento che basti fare, agire, muoversi e che non serva elaborare prima una linea strategica teorica. E questo è un errore secondo me.
Ma come fare per costruire insieme un piano teorico se nemmeno risulta ben chiaro a tutti cosa significhi nel profondo il termine “fascismo” e cosa sia la liberazione animale?
La vera domanda che mi e vi faccio adesso è questa: può essere che si debba e possa accettare questa acerbità, immaturità nel movimento (ossia accettarla come stadio del nostro percorso volto alla liberazione finale) perché se continuiamo a fare critica ed autocritica rischiamo di bloccare l’entusiasmo sul nascere e di fermare questo ingrossamento delle fila che, anche sull’onda del successo di Green Hill, si sta verificando? Ce lo domandavamo ieri io e Leonora Pigliucci, dopo l’incontro (e la sollecito ad intervenire, non appena potrà, così come sollecito Barbara Balsamo, anch'ella presente ieri, nonché tutti gli altri presenti). Ci siamo un po’ rese conto che questo ideale ultimo di una società liberata non avverrà dopodomani e che nemmeno siamo in grado di immaginarci come potrà essere una società davvero post-capitalista, post-sfruttamento del vivente. Se ci fermiamo a riflettere troppo non corriamo il rischio di perdere il treno? Al momento, in questo preciso momento storico, la situazione è quella che è (ossia c’è impreparazione teorica e scarsa capacità di immaginare cosa significhi veramente una società libera), ossia c’è una visione alquanto miope di quei meccanismi e di quelle cause che hanno nei millenni dato vita allo specismo: è giusto prenderne atto e lavorare con questi pochi scarsi strumenti che abbiamo, ossia avanzando a tastoni affetti da una certa miopia  – consci che ogni periodo storico ha i propri limiti – o dovremmo invece forzare in direzione di una maggiore consapevolezza del movimento? Dovremmo “educare” (ossia preparare teoricamente) gli attivisti? E come? A me la parola “educare” fa un po’ venire in mente certi bruttissimi momenti del passato. E a chi spetterebbe farlo, eventualmente, se continuano ad esserci varie concezioni dell’antispecismo (antispecismo metafisico, politico, debole ecc.)?
Come ho scritto sempre nel mio ultimo articolo, a me le battaglie parziali stanno pure bene, purché però non si perda di vista l’obiettivo finale e possano fungere, come nel circolo ermeneutico, ad ampliare la comprensione dell’intero fenomeno nella sua complessità; così come mi sta bene accogliere chi ha un’ideologia politica diversa dalla mia, purché abbia chiaro in mente gli obiettivi della nostra lotta, che debbono essere comuni. Perché se tizio pensa di poter liberare gli animali non umani, cercando al contempo di salvare il Capitale o di lasciare inalterati certi dispostivi di dominio perché farebbero comodo alla sua ideologia personale, allora non stiamo affatto combattendo la stessa battaglia e su questo c’è bisogno di far chiarezza. Per fare un esempio pratico, se il cattolico filo-vaticano viene a presidiare con me, mi sta bene, non voglio escluderlo, ma mi pare evidente che il mio ideale ultimo, essendo quello di una società libera dai dogmi, dai condizionamenti, NON verticistica, non omofoba, non sessista, non maschilista, non potrà mai coincidere con la sua ubbidienza ai principi della chiesa e del Vaticano o con la sua Fede in unica verità, quella emanata dalla bibbia. Nel mio ideale di mondo libero non c’è spazio per i dogmi, né per istituzioni dalla struttura verticistica. Quindi, in sostanza, l’antispecismo in cui io credo, è qualcosa di diverso da quello in cui crede il cattolico praticante osservante, suppongo, ferma restando la sua sincerità nel rifiuto dello sfruttamento degli animali ed il suo rispetto per i viventi senzienti. Può essere comunque utile procedere insieme almeno per un primo tratto di strada, almeno laddove i nostri obiettivi (limitati, parziali) convergono, tenendo ben presente che le nostre visioni e concezioni del mondo rimarrano profondamente diverse (e quindi, diverso anche l’ideale di una società futura)?
Una certa visione ideologica che sostiene il Capitale e la grossa finanza (non voglio parlare di destra perché esiste anche una destra sociale avversa al Capitale) come può coincidere con il mio ideale di liberazione animale? Allora, chi appartiene ad un certo schieramento politico, può anche provare empatia per gli animali non umani, essere contrario alla vivisezione, ma non potrà mai avere un ideale di liberazione totale come lo intendo io perché la sua visione miope lascerebbe inalterati certi dispositivi e meccanismi di dominio. Mi sta bene che venga a manifestare con me, che si lotti insieme per aprire concretamente qualche gabbia, ma che si chiaro che non stiamo combattendo la stessa battaglia.
Che al momento possa bastare questo? Procedere per un pezzettino di strada insieme, tutti quanti, senza escludere nessuno e poi si vedrà? Che per questo preciso momento storico, ancora acerbo ed impreparato teoricamente, basti intanto unire le forze per raggiungere qualche obiettivo?
Beh, io ho fatto lo sforzo fin qui di porre queste domande. Ora, per favore, che qualcuno provi a darmi qualche risposta.

2 commenti:

de spin ha detto...

La definizione che dai di fascismo mi piace. Certo, fascismo per me equivale a violenza. Quindi fascista è un altro modo di dire violento, prepotente, una persona che commette in qualche modo degli abusi nei confronti dell'altro.
E' soltanto il non voler (arbitrariamente) riconoscere nell'animale l'altro, che non fa vedere che mangiare carne o pesce, o formaggio, è un atto fascista.
Lo è.
Tanti "compagni" che cantano bella ciao con la salciccia nel panino. Fascisti, altro che compagni. La sottomissione dell'altro (più debole e indifeso), la costrizione in campi di prigionia, lo sterminio sistematico, richiama qualcosa...lager, allevamenti, quale sarebbe la differenza signori compagni antifascisti?

Rita ha detto...

Esatto.
E infatti bisognerebbe farglielo capire ai compagni.
Purtroppo pare che il collegamento non sia così facile. Pensa che Steve Best ha detto che le resistenze maggiori in ambito accademico le ha trovate proprio da parte dei colleghi che si definivano di sinistra, progressisti e comunque antifascisti; ha detto che ogni volta che prova a sensibilizzarli sulla questione dello sfruttamento animale lo prendono in giro, lo ridicolizzano persino.
Assurdo, no?
Io dico sempre che si può essere compagni quando si va a votare, ma restare profondamente fascisti nell'animo quando ci si mette a tavola. E questa gente poi, se gli fai notare l'incongruenza, ti risponde pure che deve esserci libertà di scelta. E la libertà di scelta dell'animale dov'è, dico io? Dove va a finire? Che esempio di libertà è quello di toglierla ad un altro essere vivente?
Uno, giorni fa, mi ha risposto: "è un problema tuo". Mio??? Roba da matti... eh!