sabato 22 giugno 2013

Elaborazione e superamento del lutto: andare avanti




Noi antispecisti viviamo in uno stato perenne di elaborazione del lutto.
Ogni giorno moriamo un po' insieme a tutti gli altri animali che vengono sterminati e ogni giorno mettiamo in atto meccanismi emotivi di autodifesa per cercare di superare questo dolore. Ché altrimenti non potremmo conviverci e ci sarebbe impossibile andare avanti giorno per giorno.
Poi c'è anche chi impazzisce, un poco alla volta. Ma meglio è cercare di restare lucidi per tentare di cambiare le cose.
Ieri ho visto un video terrificante (quello del post precedente) in cui moltissimi maiali, per un totale di oltre un milione, sono stati gettati e sepolti vivi in una fossa comune a causa di una malattia che ha reso non più commercializzabile la loro carne e ucciderne uno ad uno sarebbe costato troppo; è successo in Corea, ma anche noi in Italia abbiamo fatto la stessa cosa con i volatili durante l'epidemia dell'aviaria, solo che anziché gettarli in una fossa li abbiamo bruciati vivi o gassati o altro.
Questi maiali del video urlavano come disperati, con la bocca spalancata, gli occhi resi vitrei dal panico.
Ecco, io ero lì con loro, ho immaginato cosa volesse dire essere loro, stare lì, in mezzo a quei corpi, consapevoli di ciò che sta accadendo. E lo sapevano, oh, se lo sapevano cosa stava accadendo mentre i detriti di terra cominciavano a rovinargli addosso.
Cosa avrei dovuto fare poi? Mettermi a urlare? Mettermi a correre come una pazza per strada urlando la profonda ingiustizia di tutto ciò?
No, niente di tutto ciò. Ho raccolto e rimesso insieme i pezzi della mia mente andati temporaneamente in tilt e ho proseguito con le mie cose.
Una volta in più consapevole della giustezza della causa in cui ho deciso di impegnarmi, la causa della liberazione animale.
Se guardare quel video ha avuto un senso, esso è quello di rafforzare i miei propositi di lotta.
Non serve piangere, bisogna lottare. Lottare ad oltranza affinché più nessun maiale sarà considerato solo carne da macello.


Ed ecco perché mi considero un'antispecista debole. 
L’antispecismo debole si propone di rivendicare la specificità della liberazione animale in quando diversa da tutte le altre forme di oppressione dell’umano.
Non si tratta di stabilire una gerarchia degli orrori, lungi da me, ma di riconoscere che tra sfruttamento umano e sfruttamento animale vi sono comunque diversità irriducibili, a prescindere dal fatto che originariamente le due forme stiano state pensate e siano sorte insieme.
Gli animali non umani non sono semplicemente sfruttati, maltrattati o discriminati, essi vengono proprio fatti a pezzi sistematicamente entro un contesto culturale in cui tutto ciò non solo appare normale, ma è anche reso invisibile e non più riconoscibile come orrore poiché istituzionalizzato e neutralizzato grazie ai famosi dispositivi di potere (mediatici, economici ecc.).
Ora, mentre chiunque non avrà problemi a riconoscere l’orrore e l’ingiustizia dell’operaio sfruttato in Cina o delle vittime delle guerre massacrate, a quasi tutti sfugge invece quello dei corpi animali fatti a pezzi nei supermercati. Questa differenza rende, secondo me, la priorità e l’emergenza della liberazione animale diversa da tutte le altre forme di lotta umanitarie.
Il che non significa lottare “soltanto per loro” fregandosene di tutti gli altri umani, ma, semplicemente, dare alla lotta per la liberazione animale una sua specificità e legittimazione.
Scendere in piazza rivendicando una liberazione totale secondo me potrebbe condurre al rischio di non rendere sufficientemente evidente la tragedia dello sfruttamento degli animali. Il che, torno a ripetere a scanso di equivoci, non significa che impegnarsi in una lotta escluda l’impegno in tutte le altre, ma soltanto tenere separate le due forme di sfruttamento, diverse, e quindi le due forme di lotta.
Aggiungo, se posso permettermi, che l’antispecismo debole consista proprio anche in questo, prima ancora che nel considerare lo specismo un semplice pregiudizio morale.

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