venerdì 27 dicembre 2013

La Fatiscenza di Mauro Cappiello: la prigione del vivere



Un ragazzo conduce un’esistenza tranquilla e abitudinaria all’interno di un bagno. Tutto ciò di cui ha bisogno si trova tra le pareti di questa stanza piuttosto angusta. Ogni mattina il suono della sveglia lo riconduce a un eterno presente sempre uguale a sé stesso, scandito da gesti e lavori consuetudinari che mantengono l’ordine di quel microcosmo. Il lieve accenno di sgomento al risveglio – appena un’increspatura a turbare la quiete, come un sintomo che non appena si manifesti già scompare – si dissolve nell’esecuzione rasserenante del proprio dovere.
Ma un giorno accade qualcosa che ha dell’incredibile: dalle profondità dello scarico del lavandino si diffonde una voce che coinvolge il ragazzo in uno strano dialogo sulla natura delle cose e lo invita a lasciare la stanza per mettersi alla ricerca della conoscenza.
Il ragazzo appare inizialmente infastidito, poi incuriosito, infine, anche se pieno di timori e dubbi, si decide ad uscire.
Scoprirà così la realtà del mondo al di fuori della stanza.
La Fatiscenza, secondo mediometraggio del giovane Mauro Cappiello - già autore del precedente “L’oscuro cammino dell’inconscio” in cui la suggestione di atmosfere decisamente lynchiane è al servizio di riflessioni metafisiche e anticipa quelli che saranno gli stilemi e le tematiche più rappresentative dei suoi lavori futuri, come ad esempio nel lungometraggio Tatami, autoprodotto con un’etichetta chiamata Charyòt Film – riesce a catturare l’attenzione dello spettatore sin dai primissimi secondi in piano-sequenza per poi mantenere un continuo stato di tensione fino all’apertura, in ogni senso, della scena finale.
L’ambientazione claustrofobica iniziale nella stanza da bagno riflette la condizione esistenziale del protagonista che vive in catene inconsapevole di esserlo: sei uno schiavo, gli dice la voce che esce dallo scarico del lavandino, tutto ciò che ti circonda è la tua patetica prigione. Molteplici sono i riferimenti che è possibile cogliere in quest’opera, solo apparentemente surreale, in realtà direi paradigmatica della condizione umana: dal mito della caverna di Platone (evidente laddove il ragazzo ammette di scorgere talvolta strani luccichii al di là della porta, attraverso il buco della serratura), ai tanti rimandi cinefili, uno su tutti la scoperta della vera realtà in Matrix dopo che l’assunzione della pillola rossa ha permesso lo strappo del Velo di Maya, ma anche il crollo del mondo di cartapesta in The Truman Show.
Se le due opere succitate portano avanti un discorso più specificamente metafisico, quasi mistico, direi – si svela l’inganno per accedere alla vera realtà – ne La Fatiscenza invece riescono a fondersi diversi piani di lettura: si passa dall’elemento intimista a quello più propriamente filosofico, dall’esistenziale al metafisico e persino al sociale (innegabilmente la squallida routine lavorativa del ragazzo all’interno del bagno riecheggia l’automatismo delle tante esistenze condotte al solo fine di vivere per lavorare e non viceversa).
Qui comunque la cifra del vero vivere sembra mancare non tanto – non solo! – per la mancanza di consapevolezza del protagonista di trovarsi in una sorta di prigione, quanto per la paura stessa di abbandonare quello che sembra essere un luogo sicuro. Così che la vera gabbia risulta essere alla fine l’imposizione delle proprie paure, la presunta impossibilità del superarle. Paura del vivere che è nell’esser coscienti della propria decadenza fisica (eccola la vera fatiscenza!). Se vivere è riconoscimento del morire un po’ ogni giorno, allora il rifiuto della vita è il rifiuto della morte, un rifiuto che però paradossalmente conduce alla morte-in-vita, alla schiavitù di un’esistenza ingabbiata nelle proprie paure e quindi a una morte assolutamente precoce. Solo liberandosi della paura di morire, si impara davvero a vivere.
L’apertura della porta del bagno e il procedere alla scoperta di ciò che si trova al di fuori non sarà allora tanto la conquista della conoscenza ultima o la rivelazione di chissà quale verità – del resto il ragazzo lo dichiara esplicitamente alla voce, a lui non interessa dare un senso alla propria esistenza, non gli interessano quelle cose – quanto l’acquisizione di un desiderio fino a quel momento sopito: vivere senza più timore di morire, senza più l’angoscia opprimente della propria finitudine e corruttibilità fisica,  ossia aprirsi alla qualità epifenomenica del presente.
La Fatiscenza non è quindi un’opera che ha pretese teleologiche, ma al contrario indica una via nel presente per aprirsi al manifestarsi della realtà dopo aver reciso le sbarre di quella prigione che è la decadenza fisica. Solo smettendo di preoccuparsi per la propria incolumità, ci si apre all’esperienza del sublime.


Le bellissime note di Takemitsu (composte originariamente per La donna di sabbia) sostengono i vari momenti del film, conferendogli una particolare eleganza e atmosfere noir impreziosiscono gli elementi surreali di fondo, il tutto confermando la padronanza registica di Mauro Cappiello, del resto già annunciata nel suo primo lavoro: un autore che, da cinefila quale sono, suggerisco senz’altro di tenere sott’occhio e magari di cominciare a conoscere proprio a partire da questo piccolo gioiello che è La Fatiscenza. 

Note tecniche

Regia: Mauro Cappiello
Soggetto: Mauro Cappiello
Sceneggiatura: Mauro Cappiello e Fabio Divietri
Operatore di ripresa: Antonio Iurino
Interpreti: Mauro Cappiello e Fabio Divietri

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