martedì 15 febbraio 2011

Olocausto invisibile (I)

Amo gli animali. Tutti. Non li mangio e non li considero esseri da sfruttare a proprio piacimento per i più svariati scopi.
Molte altre persone amano gli animali. Ma solo i propri, o, al più, quelli considerati d’affezione.
Costoro tracciano una linea di demarcazione tra alcune specie ed altre. Inorridirebbero al pensiero di mangiarsi un cane o un gatto ma considerano “naturale” arrostire un maiale o un agnellino, bollire viva un’aragosta, o friggere un vitellino.
Questo atteggiamento si chiama specismo. Lo specismo si radica nella convinzione della superiorità di una specie rispetto ad un’altra - tipo quella umana su quelle animali - ed in nome di questa presunta superiorità - intellettuale o fisica che sia - si autolegittima a sopraffare, uccidere, sfruttare. 
A ben guardare questa definizione si attaglia benissimo anche al concetto di razzismo. Infatti in passato alcune razze - tipo quella bianca - sentendosi superiori ad altre - tipo quella nera - si sono arrogate il diritto di sfruttarle.
Lo specismo, così come il razzismo, considera la diversità come un pretesto per porre in atto la più abietta delle discriminazioni e per compiere impunemente il più nefando degli atti: quello di uccidere altre creature viventi.
L’antispecismo, che ne è l’esatto contrario e che poggia le proprie basi di pensiero su concetti di natura filosofica, antropologica, scientifica ma, prima di tutto, etica, non nega la diversità di una specie diverso ad un’altra, né intende affermare che gli animali abbiano la stessa intelligenza o capacità di pensiero dell’essere umano, anzi, riconosce la loro deminutio in termini strettamente intellettivi ma, proprio per questo, si pone come obiettivo la loro tutela e cura, e NON lo prende invece a pretesto per giustificarne l'asservimento, lo sfruttamento, e l'atto più estremo e nefando che si possa compiere: l'uccisione. 
Gli animali sono i nostri fratelli più deboli, più vulnerabili, sono creature incapaci di difendersi dai pericoli cui la società moderna li espone, sono, in primis, esseri che hanno tutto il diritto di condividere questo pianeta con noi e a noi, esseri intellettivamente, eticamente e tecnologicamente superiori spetta il compito di difenderli, di aiutarli, nello stesso identico modo con cui ci verrebbe naturale difendere un nostro fratellino minore o un bambino incapace di badare a se stesso.
In questo, come in molti altri post che seguiranno parlerò diffusamente dell’animalismo e di una delle conseguenze più dirette che è la scelta del vegetarianesimo.
Parlerò soprattutto dell’inganno in cui molti di noi sono caduti - me compresa, per lungo tempo - ossia quello di considerare “naturale” ciò che in realtà è soltanto un indotto culturale.
Noi non siamo più esseri che vivono in uno stato di natura ma siamo esseri totalmente impigliati nella ragnatela culturale che noi stessi abbiamo intessuto. Siamo talmente intrisi  nelle nostre sovrastrutture culturali da non riuscire più a credere che - così come le abbiamo innalzate - potremmo demolirle, affrancandoci da quelle abitudini o comportamenti o gesti quotidiani privi di un valore etico.
Se siamo superiori agli animali lo siamo nella misura in cui noi possiamo scegliere come agire mentre loro possono solo dare risposte di tipo istintuale o affettivo.
Gli animali uccidono perché è nella loro natura e non sono in grado di costruire un apparato etico e filosofico in grado di stabilire concetti come quello di “giusto” e “sbagliato”, “legale” o “illegale”; fanno quello che nella loro natura è necessario fare.
Allora la questione è questa: o noi, per giustificare l’uccisione di milioni di creature ogni giorno ammettiamo di non essere diversi da loro, cioè riportiamo noi stessi al rango di animali (ma allora dovremmo demolire le nostre città ipertecnologiche e ritornare ad uno stato di natura), oppure dovremmo essere in grado di trovare una risposta più soddisfacente, coerente ed inattaccabile con la quale continuare a giustificare questo sterminio che avviene giorno dopo giorno, sotto gli occhi di tutti. E non si pensi che acquistare la fettina di carne resa asettica e depotenziata dall’orrore del sangue versato perché “igienicamente” adagiata su una vaschetta di polistirolo o avvolta in uno strato di cellophane, ci renda meno aguzzini rispetto a chi, dentro i mattatoi situati lontani dai luoghi abitati affinché la sofferenza non possa giungere a sconvolgerci, impugna mannaie e coltelli  e privi milioni di creature del loro diritto a correre sui prati, prati che - fuori da ogni visione antropocentrica - non appartengono solo a noi.
Quando mi capita di affrontare questo argomento nel quotidiano - a tavola con amici, con conoscenti, nelle più svariate occasioni sociali - mi sento rivolgere un’infinità di obiezioni: alcuni argomenti sono talmente ridicoli che nemmeno meriterebbero di essere presi in considerazione, altri invece offrono notevoli spunti di discussione.
Da questo momento mi propongo quindi di affrontare la tematica dell’animalismo tentando di rispondere a quelle che sono ormai diventate le cosiddette “F.A.Q.” (ossia, dall’inglese, “Frequently Asked Questions”: domande poste più di frequente).
Ovviamente non potrò fronteggiare tutte queste obiezioni, domande, riflessioni in un unico post, quindi ne dedicherò uno per ognuna di queste e lo farò intervallandoli con altri post di altro genere in cui parlerò di libri o cinema o di attualità, o di qualsiasi altra cosa avrò voglia di scrivere.


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