domenica 31 maggio 2015

La campagna NOmattatoio si allarga


La campagna NOmattatoio si allarga alla Lombardia. Dal sito potrete accedere alla galleria di foto scattate a Milano in sostegno al presidio di Roma del 23 maggio. Un gruppo di attivisti ha proiettato alcune immagini della campagna sui palazzi e luoghi simboli del potere istituzionale. 
Abbiamo voluto sottolineare su quali fondamenta si regga questo sistema sociale. Cosa si nasconda dietro la spinta al consumo, le luci sfavillanti di negozi e palazzi, le pubblicità. E soprattutto dietro Expo ed il suo slogan “Nutrire il pianeta”. Dietro le menzogne della "carne felice" e dell'alimentazione sostenibile realizzata sfruttando, mercificando e annientando milioni di individui senzienti. Gli animali non sono schiavi, non sono macchine, non sono prodotti, non sono cibo. Mettere in luce ciò che viene tenuto nascosto, è questo che ripetiamo sin dall'inizio: e ci sembra che non poteva esserci miglior modo di dirlo che illuminando emblematicamente i luoghi oscuri del potere e del dominio capitalista.

Comunichiamo inoltre che il 6 giugno, in contemporanea con quello di Roma, ci sarà il primo presidio NOmattatoio a Brescia. Qui l'evento Facebook per chi fosse di zona e volesse prendervi parte.

giovedì 28 maggio 2015

L'amicizia non si compra!


Ogni giorno scorrendo la home di Facebook vedo centinaia di appelli di cani rinchiusi in canili da anni, alcuni invecchiati lì dentro senza aver mai conosciuto l'affetto di una famiglia, senza mai aver corso in un prato o aver fatto almeno una lunga passeggiata. Cani offesi dalla solitudine, che hanno conosciuto l'abbandono, l'indifferenza, nel peggiore dei casi (e non sono pochi) anche il maltrattamento. 
Vi prego, non comprate i cani nei negozi o presso gli allevamenti. Adottateli dai canili e adottate soprattutto quelli anziani, quelli che non hanno mai ricevuto una carezza. Sono venuti al mondo non voluti dagli umani, li hanno scartati, abbandonati, allontanati, ma sicuramente amati dalle loro madri cui sono stati strappati troppo presto. Diamo una possibilità a tutti questi individui meravigliosi.

Adottate, non comprate!!! 

mercoledì 27 maggio 2015

NOmattatoio: resoconto 7°presidio


Sabato 23 maggio 2015 si è tenuto il 6° presidio al mattatoio di Viale Palmiro Togliatti, a Roma. Nonostante le previsioni del tempo fossero pessime - minacciavano temporali e grandine - la partecipazione si è mantenuta costante. Un bel gruppo composto da persone di tutte le età si è ritrovato sul luogo stabilito e, impugnato cartelli e volantini, si è posizionato ai lati della strada e agli incroci con semafori per interagire con i passanti.

Ci teniamo in particolare a rimarcare il fatto che i partecipanti non sono necessariamente attivisti di lunga data. Ci dà enorme soddisfazione ad esempio ritrovare per la seconda volta consecutiva una signora non più giovanissima proveniente addirittura da Napoli che con fare gentile si accosta alle macchine e chiede: "volete sapere cosa accade agli animali?".
E ritrovare ogni mese il bel sorriso della giovanissima Ludovica, dodici anni, orgogliosa di battersi per la liberazione di tutti gli animali, che prontamente abbiamo nominato come nostra mascotte.

Continua su NOmattatoio.

N.B.: Il prossimo presidio si terrà il 6 giugno 2015, sempre dalle ore 10,30 alle 13,30. 

domenica 24 maggio 2015

Di rispetto e slittamenti semantici. E intanto NOmattatoio continua...

Le giustificazioni delle persone si fanno sempre più imbarazzanti. Balbettano di rispetto, rispetto, rispetto, rispetto. Il dominio sui corpi non è rispetto. La reclusione in gabbie e capannoni non è rispetto. La deportazione non è rispetto. L'uccisione sistematica non è rispetto. 
Non ci sono scuse per lo sfruttamento animale.



(Scrofe immobilizzate nella gabbia di gestazione. La seguente foto è stata presa dal profilo della pagina di Guglielmo Golinelli, l'allevatore, cacciatore, seguace di Salvini che durante la trasmissione Announo andata in onda giovedì sera su La7 ha dichiarato di rispettare i "suoi" maiali e che dentro il suo allevamento saltellano felici e contenti.)

Ieri, davanti al mattatoio, è passato un tipo in auto e ha gridato "hamburger tutta la vita!". Avrei voluto dirgli che quell'hamburger è la vita di qualcun altro. Ma da una parte mi fa piacere vedere certe reazioni scomposte perché sono il segno di un attaccamento a una parvenza di normalità che comincia a essere sgretolata.

Comunque quello che noi attivisti non dovremmo permettere nel bel mezzo delle discussioni è lo slittamento semantico da "animali" a "carne".
Quando parliamo di animali si rende subito evidente, pur in mezzo a tanti pregiudizi che ha la gente comune, che stiamo parlando di individui senzienti; quando invece usiamo la parola carne ormai siamo al prodotto finito dove l'animale è solo un referente assente (e a causa della scissione cognitiva quel termine e la sua immagine non sono più riconducibili all'individuo che è stato: sta sugli scaffali del supermercato, viene presa e messa nel carrello, comprata, messa in frigo, cucinata, consumata) e per forza di cose si va a finire a parlare di alimentazione, con l'ultimo, pericoloso, ulteriore scivolo discorsivo verso noi come soggetti della discussione (che mangiano i vegani? Che fanno i vegani?). A quel punto gli animali sono spariti. 
Facciamoci attenzione.

Intanto la campagna NOmattatoio continua, qui un'anticipazione di alcuni momenti del sesto presidio che si è tenuto ieri, durante il passaggio di un camion a quattro piano carico di agnellini, presto pubblicheremo sul sito ufficiale il resoconto e data del prossimo evento. 


Aggiornamento: il video (anticipazione di quello ufficiale) è visibile ora anche su youtube:

giovedì 21 maggio 2015

Fatti, non opinioni!


Ci sono fatti e ci sono opinioni. C'è la realtà e ci sono le interpretazioni di essa. 
Dunque, tu mi puoi dire che dello sfruttamento e sofferenza degli animali non te ne frega niente, ma non puoi dirmi che la pensi diversamente da me e che la tua opinione valga quanto la mia. Su cosa la pensi diversamente da me, sul fatto che secondo te non esisterebbe lo sfruttamento degli animali? Che non sia sfruttamento? Che non sia sofferenza? 
Questo è esattamente negare la realtà. 
Vivi in una realtà di finzione in cui ci sono mucche felici di condividere il loro latte con noi e in cui gli animali trascorrono vite serene e felicissime e poi, senza nemmeno rendersene conto - perché secondo te non sono individui senzienti e non hanno coscienza di quel che gli accade, ma sarebbero poco più che automi - vengono uccisi e via, per magia compaiono sui nostri (vostri) piatti.
Negare che gli animali abbiano coscienza è ignoranza e no, bello mio, non si tratta di avere opinioni diverse. I fatti sono fatti. Gli animali hanno coscienza e sfruttarli significa negare loro ogni seppur minima esigenza etologica, cosa che rende la loro esistenza un inferno e la loro destinazione ultima al mattatoio una tragedia di proporzioni inestimabili.

sabato 16 maggio 2015

White God - Sinfonia per Hagen di Kornél Mundruczó


"Tutto ciò che è terribile, è qualcosa che ha bisogno del nostro amore

(Reiner Maria Rilke)

Lili pedala lungo le vie di una Budapest stranamente deserta. Da dietro un angolo improvvisamente sbucano dei cani. Tanti cani, di tutte le taglie, di tutte le forme, di tutti i colori. Il loro zampettare sull’asfalto accompagna il suono delle pedalate di Lili. Sono gli esclusi dal cerchio degli eletti della società, quelli che o si dominano e si usano o si sterminano senza pietà.

Questo il prologo (scopriremo poi, tecnicamente, un flashforward). La scena quasi fiabesca, surreale apre il film vincitore della sezione Un Certain Regard dello scorso Festival di Cannes in cui tematiche politico-sociali di ampio respiro filtrano attraverso le maglie leggere di un’apparente storia per ragazzi a sfondo animalista.

La tredicenne Lili, in seguito alla partenza della madre per motivi di lavoro, si deve trasferire per un periodo di tempo a casa del padre, insieme al suo compagno canino Hagen. Le cose si complicano quando il padre decide di abbandonare Hagen, contro la volontà di Lili, per non dover pagare la tassa comunale prevista per i cani meticci.

Lili, sconvolta, il giorno dopo si mette alla ricerca del suo amico, il quale, nel frattempo, si è unito a un gruppo di randagi.

La storia, a questo punto, si dipana lungo un doppio binario narrativo: le difficoltà di Lili a comunicare con il padre e con i suoi coetanei, i tentativi per rimettersi in contatto con Hagen, la sua ribellione nei confronti dell’autorità (la scuola di musica presso cui studia), da una parte; le peripezie di Hagen per sfuggire agli accalappiacani e per riuscire a sopravvivere in libertà, dall’altra.

Continua su Eidoteca.

Ridefiniamoci

Quello che i vivisettori non ce la fanno proprio a capire è che quello che è in discussione non è soltanto la totale assenza di etica nell'ab-uso dei corpi degli altri animali, bensì la ridefinizione del concetto stesso di umanità così come lo abbiamo inteso sino ad oggi, ossia in totale opposizione a quello di animalità. Ciò è un falso proprio ontologico perché noi siamo animali e perché lo siamo non di più o di meno degli altri, ma in mezzo agli altri, i quali non stanno lì sullo sfondo in attesa di essere usati e schiavizzati in virtù della legge del più forte. 
Davvero vogliamo sentirci fieri di una ricerca basata sulla legge del più forte e su un delirio di onnipotenza grazie al quale ci sentiamo legittimati a sopraffare e sterminare le altre specie?
E davvero siamo convinti di poterci salvare così, ergendoci al di sopra di altri individui secondo la banale logica del mors tua, vita mea? 
E che umanità progredita potrà mai dirsi questa?
Se questa è l'umanità che non può fare a meno della sperimentazione sugli animali, allora no, grazie, io preferisco restare animale tra gli animali, magari vivendo meno, ma senza alcun delirio di onnipotenza, specialmente non quando deve essere basato sul dolore del mio prossimo.


mercoledì 13 maggio 2015

Il segreto di zio Walt

Un racconto (genere horror/comico).

(Foto di Andrea Festa)

Quando la musichetta della banda partì cominciarono ad avviarsi lungo la Main Street. Gli addetti a liberare la strada per lo svolgimento della Disney Parade – uno spettacolo che avveniva una volta al giorno, sempre allo stesso orario – stavano invitando gentilmente le persone, famiglie con i bambini, gruppetti di adolescenti e coppiette, a farsi da parte oltre il cordone affinché il tutto potesse svolgersi senza incidenti. 
Andrea e Silvia si cercarono un posticino dal quale poter assistere, lottando per mantenere la posizione mentre gli altri bambini spingevano per conquistare la prima fila. 
Il tono della musica crebbe e Silvia riusciva adesso a intravedere il carro principale preceduto da Minnie e Topolino che danzavano tenendosi per una mano e facendo “ciao” con l’altra agli spettatori; ogni tanto si separavano e si avvicinavano alla folla per dare un buffetto sulle guance di qualche bambino o per lasciare che i genitori immortalassero i loro figli insieme al loro personaggio preferito. 
Man mano che la parata avanzava Silvia riuscì a mettere a fuoco tutti gli altri personaggi: Dumbo, Bambi, Pinocchio, Biancaneve, non le sembrava vero vederli lì davanti in carne e ossa. Un’eccitazione simile a quella di quando la notte di Natale avevano suonato alla porta e andando ad aprire si era trovata davanti Babbo Natale in persona.
Quando il carro le passò davanti, istintivamente fece un passo avanti, scavalcando alcuni bambini. Una Minnie in formato gigante si voltò verso di lei e inchinò il faccione sorridente per salutarla. Provò a ricambiare con un “ciao”, ma si accorse di avere la voce incrinata dall’emozione. 
Pippo le prese la mano – com’era strana la sua, così grande e morbida di pelo – e la condusse a ballare dietro al carro. 

Si guardò intorno in cerca di Andrea, sperando che l’avesse seguita, ma incrociò soltanto i grandi occhi neri di Minnie che la fissavano adesso più gravemente e le orecchie di Pluto sull’attenti, a fiutare qualcosa. La musica pian piano decrebbe di intensità fino a svanire, ma ne rimase un’eco in sottofondo, accompagnata da un sibilo strano, come di ali che sbattono. 

Stava facendo notte, il castello della Bella Addormentata si stagliava roseo con le sue guglie e torri contro il cielo. Notò Campanellino, in cima ad un pinnacolo, che occhieggiava dall’alto fin dove si estendeva il parco intero. Come di vedetta. Si accorse di essere l’unica bambina rimasta, la folla di poco prima era scomparsa.
Quando provò a divincolarsi dalla mano di Pippo, sul punto di scoppiare in lacrime, la cara dolce Minnie le venne in soccorso: - Non devi avere paura, adesso ti portiamo in un bel posto. Poi le prese l’altra mano. 

- Vieni con noi, ti portiamo in un bel posto – fece ecco Topolino canticchiando: la voce sgraziata, come di un gessetto che stride sulla lavagna.

Silvia provò a urlare per chiedere aiuto, ma in quel momento la banda riprese a suonare, disperdendo le sue grida. Attaccò una musica cadenzata, come una marcia, accompagnata dalle vocette stridule e stonate dei personaggi. 
Pippo e Minnie la stavano letteralmente trascinando adesso, incuranti delle sue belle scarpine di vernice che sfrigolavano sull’asfalto. 

Passarono sotto al castello della Bella addormentata, che ora, nella luce sempre più crepuscolare, emanava così tanti luccichii da sembrare animato. Sembra che respiri – pensò Silvia. Dalle mura sembrava che trasudasse una sostanza strana e vischiosa, simile al sangue. Campanellino sempre ritta sul pinnacolo più alto, sul punto di spiccare il volo. 
Le parve di vederla girarsi verso di lei, gli occhietti come due fessure malevole.

Continuarono a camminare per un po’, constringendola ad andare con loro. Finalmente si fermarono, di fronte all’entrata della Nave dei Pirati. 
Silvia puntò i piedi, facendo un ultimo tentativo di fuggire, ma la presa di Pippo era salda e il testone di Minnie si piegava su di lei a impedirle ogni movimento.
Per incoraggiarla Pippo la abbracciò e tentò di baciarla con labbra umide da cane, l’alito che puzzava di morto. Le lasciò una scia come bava di lumaca. 
Le gambe molli come gelatina, paralizzata da un misto di terrore e incredulità, si lasciò trascinare docile verso l’entrata del tunnel.

La misero sull’imbarcazione a rotaie, che cigolò di un rumore tremendo mentre si metteva in moto.
Poi dietro tutti gli altri personaggi presero posto e a poco a poco le loro vocette stridule, che avevano canticchiato fino a quel momento, si zittirono. 
Si avviarono in un silenzio tombale.

Fu distratta dallo scroscio d’acqua di una cascata. 

- Trattieni il respiro, mocciosetta – le disse Minnie – siamo quasi arrivati a destinazione – e poi esplose in una risata maligna. 
La barca scese giù, giù fino in fondo alla cascata – gli schizzi dell’acqua gelida le avevano inzuppato tutto il vestito, ormai ridotto a uno straccio, le scarpine lucide zuppe fin dentro i calzini. 
E poi si fermò. Una mappa del tunnel appesa alla parete di sinistra indicava che si trovavano proprio al centro esatto dello spazio destinato all’attrazione.  

Dietro a lei si fermarono tutti gli altri e a turno scesero, circondandola. 

Topolino spostò un grosso forziere pieno di denaro e gioielli, lasciando apparire una lapide. 
Scintillava e sembrava che respirasse alla stessa maniera del castello.

Minnie parlò: “Siamo qui zietto, l’abbiamo portata”.
- Dove sono? Chi avete portato? Che succede? - Silvia balbettò, pronunciando le sue prime parole dopo tanto tempo, incapace di urlare. 
- Silvia, Silvietta, non c’è niente di cui aver paura – le disse Minnie. Vedi, Lui, il Nostro caro zietto, è qui per noi. 
- Ma lui... chi? – chiese Silvia in un sussurro, incapace di fermare il tremito del corpo, che in qualche modo, oltre la ragione, aveva intuito ciò che non si sapeva spiegare.

- Lui, zio Walt. Vedi, noi, senza di Lui, non esisteremmo ed è per questo che continuiamo a tenerne in vita lo spirito, offrendogli in sacrificio i bravi bambini come te. 
- Come me? – chiese Silvia scossa da un fremito – Che significa “come me”? Perché io? Voglio la mia mamma, voglio il mio fratellino... - Iniziò a piagnucolare, di un pianto sommesso, come di chi non ha speranza, ma si consola al ritmo dolorante della sua stessa nenia.
- Non è difficile da capire – si fece avanti Topolino, dando un’occhiata di intesa a Minnie, che indietreggiò di alcuni passi, in direzione della lapide di Walt Disney. 

Silvia si occorse con orrore che la lapide era stata smossa e che, al di sotto, qualuno, o qualcosa, stava emergendo in superficie. 

- Lui ti prenderà e tu vivrai qui. Per sempre. Proprio come hai pensato ti sarebbe piaciuto fare oggi, quando hai assistito alla Parata. 

- Ma... come mi prenderà? In che modo? – chiese Silvia con un tono tra il supplichevole e il disperato. 

Poi sentì un rumore, una specie di gorgoglio e lamento indefinito e insieme uno strusciare come di cartapesta. Si voltò d’istinto verso il punto da cui proveniva.
Pluto era lì, cane infernale a fare da guardia con un ringhio spaventoso, e... quella cosa, cos’era quella cosa accanto a lui?

I personaggi si inchinarono tutti di fronte all’orrenda figura: una salma ormai mummificata, ma viva, che respirava ancora e trasudava una sostanza viscida, simile a quella di cui erano impregnate le pareti del castello rosa. Dal suo corpo uscivano diversi tubi, di grandezza differente. 
Silvia si accorse che il suono, quella specie di lamento proveniva dall’interno dei tubicini. 

- Quello che senti – le disse Topolino, come se avesse letto la sua domanda col pensiero – è il rumore che fanno le anime dei bambini. Le piccole anime di cui lo zio Walt... Oh, ma non c’è niente di cui preoccuparsi. Non sarà doloroso. Vedrai... 
- Perché? Non vogliooooo – urlò Silvia, provando a indietreggiare.
- Dobbiamo farlo, altrimenti noi moriremmo tutti. E noi questo non lo vogliamo. Come faremmo se no ad allietare le giornate di voi bambini? Ti piace quando la mamma ti racconta le favole, non è vero?
- Non voglio... voglio la mia mamma – Silvia tentò di farfugliare qualcosa, ma non riuscì a finire la frase che una folata di vento gelido la fece rabbrividire. 

Walt si era mosso, producendo un suono agghiacciante di pelle morta agitata dal vento. 
Al suo cenno, tutto si tacque e tutti rimasero fermi, immobili, come in ascolto, o in attesa, di qualcosa.

Anche Silvia rimase in ascolto. Incapace di parlare, trattenendo il respiro, fino a che non percepì un piccolo sibilo che veniva da fuori, come uno svolazzare d’ali. 
Il sibilo raggiunse il suo orecchio e solo quando qualcosa di molto leggero le si posò sulla spalla si accorse che era Campanellino. Per un attimo provò sollievo, illudendosi che fosse accorsa in suo aiuto, ma il sorriso che stava appena accennando le morì sulle labbra nel momento in cui la piccola fatina, con un colpetto sul viso, le disse: “Ora fai parte della Parata anche tu. Starai con noi. Per sempre”.

In quel momento le sembrò di diventare di marmo. Si rese conto di non riuscire più a respirare, di avere i polmoni come pietrificati. Eppure non era ancora morta del tutto. Né morta e né viva. Boccheggiò invano nell’aria che sapeva di plastica.
Si guardò attorno.
Adesso la prospettiva era cambiata.

Venne l’alba, ma lì dentro era sempre la stessa notte artificiale. 
Nel giro di poche ore il parco avrebbe ricominciato le sue attività, i bambini sarebbero accorsi con gioia a provare le varie attrazioni, alcuni adulti avrebbero assistito commossi alla parata; Silvia avrebbe osservato la folla, con cura ne avrebbe scelto uno e Minnie l’avrebbe preso per mano, proprio come aveva fatto con lei il giorno prima.   

(Rita Ciatti)

(Liberamente ispirato alla leggenda urbana che narra che il corpo di Walt Disney si trovi, per sua volontà, in stato di sospensione criogenica sotto l'attrazione dei Pirati dei Caraibi a Disneyland).

lunedì 11 maggio 2015

Consiglio di lettura: "La giungla di Upton Sinclair


Per quanto sia stato scritto nel 1906, è un libro tristemente attuale. 

L'invettiva contro il sistema capitalista, presente in tutto il testo, ma esplicita negli ultimi capitoli, spiega con parole semplici e con enorme lucidità il meccanismo che ne è alla base e che stritola una moltitudine enorme di individui senzienti, logorandone anima e corpi. 
Packingtown, il quartiere dei macelli di Chicago, è reale e simbolico al tempo stesso: si nasce e si finisce tutti alla catena di smontaggio. Ma le cose potrebbero cambiare, purché si prenda consapevolezza e ci si attivi. In un sistema diverso tutti potremmo lavorare una sola ora al giorno. Perché il resto del tempo che ci viene succhiato è impiegato a produrre beni non necessari e tutti i servizi inerenti.

Certo, è doloroso constatare oggi, a più di un secolo di distanza, come - nonostante il romanzo all'epoca sia stato accolto con fervore e abbia suscitato molto scalpore - non solo le cose non siano affatto cambiate, ma siano addirittura peggiorate; questo perché certamente, se un libro può aprire gli occhi, non basta certo acquisire dentro di sé la consapevolezza per lottare contro l'oppressione e il dominio. Quello è un primo passo. Poi bisogna impegnarsi, giorno dopo giorno.

sabato 9 maggio 2015

Interrogazione a sorpresa

Un racconto breve.



La classe di Anna era divisa in due zone: quella degli sfigati e quella dei fighi. 
Lei era nella prima. Del resto, per finirci, bastava poco: venire da fuori Roma, un particolare nell’abbigliamento sbagliato, accento “del paese”. 

Per di più ad Anna piaceva studiare e questo non poteva che peggiorare la sua situazione. Oltre che provinciale, pure secchiona! 
Qualche volta i fighi si rivolgevano a lei, con tono gentile e mellifluo, per chiederle di passargli gli appunti o di lasciarli copiare durante il compito in classe. Fuori dall’aula, nemmeno la salutavano. Come se fosse invisibile. 
E poi c’era Giulia. Una di loro, del gruppo dei fighi (con un nome così, non poteva che esser figa). 
Entrava in classe con quella sua aria sempre imbronciata, perennemente in ritardo, sbuffando qua e là mentre prendeva posto, con l’espressione tipica di chi sa di essere bella e si muove nel mondo come se tutto le fosse dovuto. Ovunque andasse si trovava a suo agio, non come lei, che si sentiva perennemente fuori posto. E non soltanto in classe.
Per di più Giulia era anche intelligente e brava a scuola. Lavativa, non studiava perché studiare era da secchioni, riusciva però sempre a cavarsela grazie alla parlantina sciolta e perché, facendo le chiuse in casa di due giorni e notti di seguito, riusciva a recuperare la sfilza di tre presi nelle settimane precedenti. Sapeva, in poche parole, quando era il momento di mettersi sotto e, con la stessa nonchalance con cui strusciava i piedi dal suo posto fino alla cattedra, riusciva a mantenere una media altissima. 
Anna aveva una cotta per lei. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di essere notata, di ricevere un sorriso, un saluto, un cenno qualsiasi. Anche perché entrare nelle grazie di Giulia le avrebbe garantito l’accesso automatico nel giro, essere invitata alle feste il sabato pomeriggio e magari potersi fermare a dormire da lei, anche se non riusciva, con l’immaginazione, ad andare oltre quel sogno vago. E comunque Anna sarebbe morta dietro a lei anche a parti inverse, Giulia una sfigata, lei una figa, anche se, a pensarci bene, Giulia sfigata non riusciva proprio a immaginarsela. 
Il  massimo che era riuscita a ottenere era che una volta, a ricreazione, le si fosse rivolta per chiederle se per caso avesse un Tampax da prestarle, ché le erano venute le mestruazioni all’improvviso e non sapeva come fare. Anna non ce l’aveva, ma si era prontamente offerta, senza nemmeno pensarci, di andare a chiedere alla Preside per lei se poteva uscire a comprarli. Giulia aveva risposto solo: “OK, ma sbrigati, altrimenti faccio diventare la classe un lago di sangue” e poi era scoppiata a ridere, davanti ai maschi, per niente imbarazzata. 
Così si era precipitata di sopra fino all’ufficio della Preside, col cuore in gola aveva spiegato la situazione e, avuto il permesso, era volata in farmacia. Per strada aveva corso, corso col cuore in gola, come se si fosse trattata di una cosa di vita o di morte, come se davvero avesse rischiato di trovare Giulia svenuta nel lago del suo stesso sangue e la classe allagata. Quando, rientrata, avevo dato il pacchettino a Giulia, lei nemmeno le aveva chiesto quanto avesse speso. Si era limitata, al suo solito, ad avviarsi sbuffando verso il bagno, rivolgendole appena un quasi impercettibile “grazie”. 
Anna era tornata lentamente al suo posto, sopraffatta da un senso di stanchezza e impotenza. Per tutto il resto della mattinata non era stata capace di concentrarsi su altro. Va bene, era delusa perché Giulia le aveva detto a malapena un grazie, ma, in fondo, che cosa avrebbe dovuto aspettarsi? Che Giulia l’avesse invitata in bagno ad aiutarla? 
Non riusciva nemmeno ad ammetterlo a se stessa, eppure, in fondo in fondo, era proprio questo che aveva sperato.

Poi un giorno, durante l’ora di storia dell’arte, era accaduta un’altra cosa. 

Innanzitutto c’è da dire che tutti temevano il prof. di storia dell’arte perché non si riusciva a capire bene cosa volesse ed era burbero e umorale. 
Quella volta però tutti erano perché non era giorno di interrogazione, ma di spiegazione.   
Entrato il professore, Anna aveva preso il quaderno degli appunti in attesa che la lezione cominciasse.
Invece lui aveva fatto l’appello e poi detto: “Oggi interrogo”.
Si era alla fine del semestre e prendere un votaccio, quel giorno, significava non avere la possibilità di recuperarlo in tempo utile.
Per questo tutta la classe aveva cominciato a protestare, dapprima a voce bassa, poi sempre più alta, fino a scatenare un putiferio.
Il prof. aveva lasciato fare per un po’ e poi si era alzato in piedi e con il suo solito tono burbero aveva urlato: “Silenzio, decido io quando interrogare, e non importa che abbiate già i vostri voti, oggi ho deciso che voglio risentire alcuni di voi. Per cui, estrarremo dei numeri a sorte per decidere chi sarà interrogato!”.

- Ma prof, la prego, non può farci questo, per favore, così ci rovina i voti – aveva detto uno degli sfigati secchioni. 

- Così ci rovina la media del semestre, per favore, non interroghi oggi, non siamo preparati, c’era il compito in classe di mate, ci siamo dovuti preparare per quello.

- Sì, per favore Prof., ci ripensi, facciamo la prossima volta – anche una ragazzetta dalla parte dei fighi si era raccomandata, pure se prendere un altro due in fondo non le avrebbe cambiato granché.

- Non mi importa, - aveva proseguito il prof. imperterrito – voi dovete essere sempre preparati, ogni volta, anche se vi ho interrogato appena quella precedente. Procediamo! – La sua voce risoluta aveva tuonato spazzando via ogni possibilità di appello.
L’intera classe aveva iniziato a quel punto a piagnucolare e a supplicare, nessuno era disposto a subire un’ingiustizia di quel genere. 

Anna si era quasi distrutta un’unghia a forza di strapparsi via le pellicine, quella volta pure lei non aveva studiato.

Il professore aveva appena tirato fuori dal cassetto la scatola per l’estrazione a sorte dei numeri che già aveva usato altre volte, quando Giulia si era alzata in piedi, e con la solita espressione annoiata aveva detto: - Ma prof., non può accettare almeno un volontario? 
Lo aveva chiesto voltandosi verso la zona degli sfigati, come aspettandosi che per qualche incontrovertibile legge di natura, avesse dovuto toccare a uno di loro farsi avanti e immolarsi per la classe. 

- Sì, prof., per favore, sia gentile, accetti un volontario – a seguire avevano fatto eco tutti quelli nella zona di Giulia, seguendo il suo sguardo che ora, da annoiato, si era illuminato come quello di chi ha appena avuto un’idea brillante. 

Anna, a quel punto, aveva appena sollevato gli occhi dal suo banco quando si era accorta che non solo tutti stavano guardando nella sua direzione, ma anche che, piano piano stavano stringendo la messa a fuoco proprio su di lei, individuandola come evidente capro espiatorio – vittima da immolare, se preferite - vicini di banco compresi, sfigati che fossero pure loro. 

- Un volontario? – aveva detto il prof. – Per esempio, chi? Oh, insomma, quante storie, a me basta che senta qualcuno, poi se volontario o meno non interessa. Coraggio, fatevi avanti allora. 

Anna... perché non vai tu, tu che sei sempre tanto brava? – aveva urlato Giulia trionfante – piegando leggermente la testa e assumendo una posa da sfida. 

- Dai Anna, vai tu, ci scommetto che hai studiato - le aveva detto poi con voce in falsetto carezzevole. Con quel finto tono supplichevole, come di chi supplica per gioco. 
Dietro la finta supplica ostentava la solita sicurezza, come quella volta che le aveva chiesto di andarle a comprare i Tampax, tuttavia sfoderando al meglio tutte le sue armi di seduzione, per il solo gusto di giocare un po’, come fa il gatto col topo. 

Anna si era chiesa se Giulia sapesse, se si fosse mai accorta della cotta che provava per lei, di come si scioglieva e arrossiva ogni volta che capitava che le passasse accanto incurante, investendola dell’odore dei suoi capelli che scompigliava continuamente con le mani. 

Le era venuto allora in mente di quando una volta, negli spogliatoi della palestra, aveva annusato di nascosto la sua maglietta sudata, provando un sentimento stranissimo che era un misto tra il voler essere lei e il desiderarla fortemente. E diosolosapeva che se si era fermata in tempo e non aveva preso in mano anche le mutandine era perché aveva sentito dei passi arrivare e sarebbe morta di vergogna se qualcuno l’avesse sorpresa a fare quella cosa. 

- Dai Anna, vai tu, solo tu puoi salvare la classe – di nuovo la voce di Giulia l’aveva fatta sobbalzare.
- Chissà, forse mi aveva vista quella volta, con la sua maglietta sotto al naso. – pensò. E subito le era tornato in mente quell’odore acre e dolciastro insieme, accompagnato dal desiderio di sentirne il sapore.

Poi, a poco a poco, in un crescendo di voci, tutta la classe l’aveva incitata: Anna, Anna, Anna... senza toglierle gli occhi di dosso, facendola sentire per la prima volta da anni, da quando frequentava quella ricca scuola di quartiere snob, al centro dell’attenzione di tutti e si era sentita piccola e a disagio nel suo vestitino a fiorellini.

- Anna, Anna, Anna... le voci avevano continuato, ora mischiate a quelle nella sua testa dei suoi genitori che la sgridavano per il brutto voto, ora a quelle del professore che le faceva domande cui non avrebbe saputo rispondere, ora a quelle di Giulia che la supplicava e le diceva: “Hai un tampax per favore? Sbrigati, altrimenti faccio diventare la classe un lago di sangue”, ora a quelle dei complimenti e degli inviti che tante volte avrebbe voluto rivolgere a Giulia, ma che non aveva mai avuto il coraggio di pronunciare.


Ci fu un momento in cui fu quasi sul punto di perdere i sensi, la vista annebbiata e le ginocchia molli di timidezza, ma invece poi, mettendo via il quaderno degli appunti e prendendo il libro di testo – come se le azioni avessero anticipato il pensiero – si era alzata e davanti a una classe finalmente ammutolita, nonostante il tremore nelle gambe, aveva sfilato con una certa grazia verso la cattedra. 

Aveva preso un voto basso, non tanto basso, ma abbastanza da rovinarle la media. Lo aveva accettato con un’alzata di spalle, senza commentare.

Tornando al suo posto, aveva notato la perfetta simmetria della classe, divisa in due.
Poi aveva guardato Giulia, che le aveva rivolto un timido sorriso. E anziché tornare dritta al suo banco, aveva deviato, passandole accanto, e le aveva fatto una lenta carezza sui capelli. 

(Rita Ciatti)

giovedì 7 maggio 2015

La campagna NOmattatoio prosegue

Video del quinto presidio al mattatoio di Roma che si è tenuto lo scorso 18 aprile.

Il prossimo sarà il 23 maggio, qui l'evento Facebook. 

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lunedì 4 maggio 2015

Il mattatoio è la vergogna dell'umanità


“Su per delle lunghe scale esterne giunsero all’ultimo dei cinque o sei piani del palazzo. Lì rividero lo scivolo dei maiali in quel suo segmento in cui la fiumana delle bestie con grande sforzo ancora risaliva. In un certo punto i maiali potevano fermarsi per qualche istante, ma venivano subito sospinti in avanti attraverso una passerella, finendo così in quello stanzone da cui non sarebbero mai più usciti. Era un ambiente angusto, lungo e stretto, questo stanzone. Per i visitatori che vi si addentravano c’era una specie di balconata che correva sui margini. Un’enorme ruota metallica, del diametro di circa sei metri, munita di una fila di anelli attaccati sulla sua facciata esterna e disposti tra loro a uguale distanza, torreggiava in fondo. Ai lati della ruota c’erano due stretti corridoi in cui i maiali entravano al termine del loro viaggio, e in mezzo, tra i due corridoi, sostava un nerboruto operaio nero, con le braccia e il petto nudi. In quel momento stava probabilmente prendendo fiato perché approfittava del fatto che la ruota si era fermata, intanto che degli altri operai facevano pulizia nella sala. Dopo qualche minuto però la ruota riprese a girare, e gli uomini ai due lati si rimisero al lavoro. Il compito di questi uomini consisteva nell’agganciare una catena alla zampa di ogni maiale. L’estremità di ogni catena veniva bloccata in uno degli anelli della ruota. Appena la ruota si muoveva accadeva che il povero maiale veniva di colpo sollevato e cominciava a dimenarsi e a strepitare per l’aria. E infatti uno strido agghiacciante colmò in quel momento lo stanzone e squarciò i timpani dei visitatori; essi sobbalzarono e le donne si ritrassero atterrite. A quello strido ne seguì un altro, ancora più disperato. Era dovuto alla consapevolezza del povero animale che, una volta sollevato in aria, capiva di non poter più tornare indietro: lassù, giunto al punto in cui la ruota cominciava a farlo scendere, mediante una specie di carrucola veniva smistato in una certa direzione, si muoveva sospeso a mezz’aria per lo stanzone mentre un altro suo simile, e poi un altro ancora lo seguivano alla stessa maniera, fin quando non si formava una doppia fila di maiali appesi per una zampa, che si dimenavano e grugnivano disperati. Quel frastuono era assordante, metteva a dura prova i timpani. Si aveva la sensazione che le pareti dello stabilimento quasi dovessero infrangersi sotto l’’urto delle onde sonore, e che prima o poi si sarebbero sgretolate e il soffitto sarebbe venuto giù.

Urla lancinanti, grugniti perforanti, agonia, d’un tratto calma, poi di nuovo un’esplosione più violenta, crescente fino all’apice intollerabile. E, per alcuni, era più di quanto si potesse sopportare. Gli uomini si scambiavano occhiate nervose, se sorridevano lo facevano in modo imbarazzato; le donne si stropicciavano le mani, mostravano segni di irrequietezza. Il loro viso si sbiancava, i loro occhi si inumidivano. Nel frattempo, indifferenti a tutto ciò, gli operai che lavoravano nello stanzone svolgevano il proprio compito. Per loro non faceva alcuna differenza che si trattasse di strida dei maiali o di lacrime dei visitatori. Agganciavano i maiali uno dopo l’altro e li sgozzavano con una rapida coltellata, così integrando la fila di quegli animali rantolanti che mescolavano le ultime grida ai copiosi fiotti di sangue; le carcasse dondolanti per aria riprendevano il loro viaggio, per essere poi immerse in una grande vasca d’acqua bollente. Il tutto era così sistematico, così clinico, così razionale che i visitatori ne rimanevano affascinati. Era la produzione meccanizzata della carne di maiale, la produzione organizzata su base matematica della carne di maiale! Ma, anche la mente più affaristica e apatica non poteva non pensare, perlomeno per un solo istante, a quei poveri maiali: erano così innocenti, giungevano così ingenuamente, con così tanta umanità finivano col rivendicare le proprie proteste, e così coscienti erano del loro diritto di protestare... be’, insomma, non avevano fatto proprio nulla per meritarsi quel trattamento, e il modo stesso in cui venivano tramutati in carne in scatola finiva per aggiungere al danno anche la beffa. Farli ciondolare in quel modo disumano e impersonale, non un cenno di scusa, non l’onere di una lacrima versata per loro... Di tanto in tanto un qualche visitatore scoppiava pure in lacrime, ma di certo la macchina del massacro non si fermava! Era come se, in un qualche castello, in segreto e al riparo, fuori dalla vista ed epurato finanche dal ricordo, si perpetrasse un orribile crimine. Non si poteva evitare, riflettendo sulla questione, di precipitare in uno stato d’animo filosofico o sentimentale, finendo con l’interpellare o chiamare in causa simboli e metafore, mentre si udivano gli strepiti di tutti i maiali dell’universo.

Davvero qualcun sarebbe potuto rimanere scettico sul fatto che dovesse esistere un paradiso dei maiali, sulla terra o al di sopra di essa? Un paradiso dove ciascuno di quei maiali non avesse diritto alla ricompensa per così tanta sofferenza subita?

Ciascuno di loro era una creatura univoca, diversa, a sé; chi bianco, chi nero, marrone, maculato; vecchi, giovani, lunghi, magri, tozzi, brutti; ognuno con una propria individualità, una sua propria volontà, forse con speranze e desideri consapevoli... tutti riponevano fiducia in sé stessi, percepivano quanto fossero importanti, erano consci della loro dignità. Tuttavia, intanto che ognuno di essi aveva percorso la propria via, una nefasta ombra non lo aveva perso d’occhio, gli era rimasta appiccicata alle spalle pronta a ghermirlo: un Fato impietoso che l’aveva atteso a un certo punto del suo cammino e, crudele, s’era scagliato su di lui, l’aveva bloccato, l’aveva afferrato per una zampa, senza alcuna possibilità di dargli salva la vita. E nulla avevano potuto le sue lamentele, le sue urla selvagge; ogni cosa era stata annullata. I suoi desideri, le sue emozioni era come non fossero mai esistite. Gli si tagliava la gola e, mentre agonizzante esalava l’ultimo respiro, lo si stava ad osservare. Davvero, dopo tutto questo, si poteva continuare a non credere che un luogo in cui a un dio dei maiali sia cara e preziosa la dignità dei maiali, in cui il loro dolore e il loro sacrificio abbia un significato e un senso, non possa esistere? Non vi sarebbe stato proprio nessuno che avrebbe tenuto stretto il povero animale tra le braccia? Lo avrebbe abbracciato per donargli una qualche consolazione, lo avrebbe ricompensato del lavoro ben fatto spiegandogli il motivo, la logica del suo martirio?

Forse, nei semplici pensieri del nostro amico Jurgis uno sprazzo di intuizione di tutto ciò era possibile ravvisarlo, allorquando, volgendosi per riprendere il suo cammino attraverso lo stabilimento, sussurrò: << Dieve, sono contento di non esser nato maiale!>>.”

Da "La giungla" di Upton Sinclair.

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Partecipa al presidio: bit.ly/NOmattatoio6

sabato 2 maggio 2015

Perché l'antispecismo è libertario

Credo che tutti concordiamo sul fatto che la violazione dei corpi altrui costituisca sempre un esercizio arbitrario di potere e dominio e una negazione della libertà. Eppure questo assioma viene a cadere quando parliamo degli animali non umani. Tenendo a mente la metafora del grattacielo di Horkheimer della struttura verticistica e gerarchica del potere che trae la sua linfa dallo sfruttamento del vivente – non dimenticando che esso è anche trasversale e orizzontale – ci è possibile affacciarci per un attimo “sull’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali.”.

La questione è senza dubbio sociale e politica, eppure nessuno sembra disposto ad ammettere la propria responsabilità nel mantenimento di questa struttura; peggio ancora, nessuno è capace di riconoscere che lo sfruttamento degli animali sia ideologico e non “naturale, normale, necessario” come la cultura in cui nasciamo ci fa credere.
Scrive la psicologa Annamaria Manzoni nel suo “Noi abbiamo un sogno”: “Che cosa allora permette che tante persone assolutamente per bene, rispettose e che mai metterebbero consapevolmente in atto comportamenti lesivi nei confronti degli altri, con il loro silenzio accettino e con le loro abitudini incentivino tutto questo? 
Tra i meccanismi che entrano in gioco, un posto prioritario è occupato dalla cornice cognitiva all'interno della quale questi comportamenti vengono posti: semplicemente si parte dall'idea incontestabile che gli animali non sono persone. Il ragionamento prosegue: siccome la nostra cultura si ostina a considerare l'uomo al centro dell'universo, chi umano non è, è portatore, con la sua stessa diversità, di un'essenza priva di valore quando non addirittura gravida di pericoli e minacce: in altri termini o è inferiore o è pericoloso e come tale può e deve essere trattato. Quindi la cornice cognitiva permette a cacciatori, pescatori, toreri, vivisettori di non riconoscere sadismo, crudeltà, aggressività in ciò che fanno; permette a chi si nutre della loro carne di non provare rimorso o senso di colpa". E aggiungerei: permette alla collettività di considerare normali determinate pratiche di violenza e abuso di corpi animali, con il beneplacito dei media che abilmente ne nascondono gli aspetti più efferati  e del sistema conservatore (anche quando si traveste da progressismo) che mira a perpetuare se stesso.

Continua sul sito dei RadicaliAnarchici.

venerdì 1 maggio 2015

L'animale invisibile

Un brevissimo esercizio di stile (ma spero anche di contenuto).

L’animale invisibile appartiene a una specie non ancora ufficialmente tassonomizzata ed è molto difficile scorgerlo di giorno. Bisogna essere particolarmente attenti e mantenere lo sguardo vigile, forse allora lo si potrà intravedere lungo quelle strade trafficate generalmente chiamate autostrade. 
A me una volta è successo e l’impressione che ne ho ricevuto è stata talmente sconvolgente da scuotermi profondamente ancora oggi al solo ricordo. 
Descriverlo è molto difficile per via della sua particolare tendenza a un continuo e veloce mutamento e soprattutto perché dopo qualche secondo di osservazione tende a diventare, per l’appunto, invisibile per poi ricomparire, per occulte e misteriose pratiche, in qualche altro luogo, completamente irriconoscibile. La sua forma cangiante e mutevole lo fa rassomigliare ora a un vitello, ora a un maiale, poi a un coniglio, talvolta a un cavallo, in particolari periodi dell’anno persino a un agnello e si narra che in alcuni paesi anche ai comuni gatti e gatti con cui abbiamo molta familiarità. 
Una volta raggiunta la trasformazione finale si annida, invisibile, in ogni dove: acquattato dentro qualche bottega, esposto alla luce dei neon dei supermercati, persino nelle nostre confortanti abitazioni: è possibile trovarlo dentro i cassetti, negli armadi o addirittura avvolto ai nostri corpi, anche se raramente ci si accorge della sua presenza. Comunque sia non c’è da aver paura, non è pericoloso, non morde e non è infetto. 
Senza volto e senza nome, come referente assente, compare in quasi tutti i menù dei ristoranti, tuttavia quasi tutti si riferiscono a lui, senza averlo mai davvero conosciuto, chiamandolo così: carne. 

(Rita Ciatti)