martedì 27 dicembre 2016

3096 giorni di Natascha Kampush


Sbirciando tra gli scaffali della libreria della stazione, il giorno della vigilia di Natale, mi è capitato sotto gli occhi il libro che racconta la prigionia di Natascha Kampush, la ragazza austriaca che fu rapita all’età di dieci anni e tenuta prigioniera per otto, prima che riuscisse a scappare dal suo sequestratore. 
“3096 giorni”, così si intitola, e tali sono i giorni che è stata tenuta segregata dentro una cella angusta, a parte alcune sporadiche uscite nell’appartamento al di sopra e in cui comunque era sempre tenuta sotto stretta sorveglianza dal suo sequestratore, persino quando andava in bagno.
La storia è scritta da lei stessa, con un stile molto asciutto che non lascia spazio alla retorica o al compatimento. Spiega molto bene il complesso rapporto che si era venuto a instaurare con il rapitore e che i media hanno frettolosamente liquidato con Sindrome di Stoccolma. Natascha, sebbene fosse molto piccola quando lui la rapì, era comunque una bambina intelligente e sveglia, seppure insicura, e non ha mai perso la consapevolezza di essere una vittima di un crimine orrendo. Le continue vessazioni che ha dovuto subire durante gli otto anni – isolamento, privazione del cibo, botte di ogni tipo, dominio totale sul suo corpo e le sue funzioni, controllo costante, abusi e ricatti psicologici, umiliazione, privazione della sua identità – non le hanno fatto perdere la lucidità di capire che non avrebbe dovuto arrendersi e che, per quanto il rapitore si fosse impossessato di ogni suo atto e pensiero, avrebbe dovuto preservare un minimo di autonomia mentale per non perdere del tutto il contatto con la realtà. Sottomessa, picchiata, abbrutita, costretta a fare da schiava e a subire l’ira e la paranoia crescente dell’aguzzino, non ha mai perso quel minimo di ragione mentale che le ricordasse chi era e cosa voleva: fuggire, essere libera. Piegata, ma non spezzata, come ama ricordare.  
Ne parlo perché, a parte l’interesse per questa vicenda che all’epoca della sua liberazione, e tutt’oggi, fece molto clamore, mi hanno colpito alcuni passaggi in cui lei descrive molto bene la condizione psicologica in cui ci si viene a trovare quando si subiscono abusi continui e tra questi forse i peggiori: la privazione del cibo e l’isolamento. Sarà che il mio pensiero è sempre rivolto alle vittime costanti del dominio dell’uomo, gli animali, ma ci ho visto tantissime analogie appunto con quegli individui che vengono sottomessi e costretti ad eseguire esercizi contro natura all’interno di circhi, zoomarine o in altre strutture; così come nelle manifestazioni di affetto dei cani usati per la vivisezione nei confronti dei loro aguzzini. 
Anche loro, come Natascha, sanno bene che la mano che li picchia e gli toglie il cibo, è anche però la stessa che li nutre e decide se tenerli in vita oppure no. È da quella mano, per quanto crudele, che dipende la loro sopravvivenza. E per riconquistare la libertà è necessario sopravvivere. Quel che li spinge a resistere - com’è stato per Natascha - è appunto quel desiderio ultimo, indomito e assoluto, di libertà. 
L’aspetto più sconcertante e complesso e che molti liquidano con “fedeltà”, nel caso degli animali non umani, o Sindrome di Stoccolma, nel caso delle persone rapite, è che quando si è rimasti affamati per giorni, senza ricevere cibo o comunque tenuti a stecchetto costante, così che la sensazione della fame sia sempre presente, si è profondamente grati di ogni pezzetto di cibo che arriva, anche se arriva dalla stessa mano che ce ne priva. Non solo. Le conseguenza della fame indotta per troppo tempo nuoce anche al cervello e alle facoltà cognitive. Ci si sente deboli, spossati e non si riesce a pensare ad altro che al cibo. Tutte le poche energie mentali e fisiche vengono indirizzate nel tentativo di accedere o farsi dare un pezzetto di cibo. Questo è un modo per evitare che il prigioniero possa pensare ad altro; come alla sua fuga, per esempio. 
Mi sono chiesta tante volte come mai gli animali rinchiusi nei circhi - animali forti come leoni, tigri, elefanti - non si ribellino quotidianamente. A parte che lo fanno, sono molti i casi di animali che hanno tentato la fuga (come quello del giraffino Alexandre e quell’altro dell’elefante evaso da un circo di Roma e i tanti degli animali che si gettano dai tir mentre sono diretti al mattatoio o che provano a fuggire dagli allevamenti), ma il fatto è che questi animali sono stati addestrati violentemente sin da quando erano piccoli: sanno che al minimo cenno di ribellione saranno puniti con botte, scosse elettriche e, cosa peggiore, con la tanto temuta privazione del cibo. Vivono poi in isolamento, impossibilitati ad avere relazioni con altri simili. Tenuti segregati dentro gabbie piccolissime e privati dell’espressione di ogni necessità etologica. Esattamente come Natascha: una storia, la sua, che ci fa orrore, ma che lasciamo che si ripeta ogni giorno su altri individui indifesi. 
Natascha è stata privata della sua adolescenza, quel periodo così importante nella formazione di un individuo che va dai dieci ai diciotto anni; gli animali vengono privati della possibilità di fare qualsivoglia esperienza. Blocchiamo il loro processo evolutivo, impediamo lo sviluppo delle loro capacità cognitive, gli impediamo di essere, di esistere, di divenire. Questa forse è la cosa peggiore, ancor più della morte, che talvolta giunge per loro come l’unica liberazione possibile. 
Un’altra cosa che scrive Natascha nel suo libro è che solo dopo, una volta liberatasi e avuto modo di elaborare quanto vissuto, con l’aiuto di psicoterapeuti, ha potuto capire quanto fosse rimasta prigioniera di ben due prigioni: quella reale, della cella e casa del rapitore, ma anche quella mentale. Prima del giorno della sua fuga lei aveva avuto altre opportunità di fuggire, ma non era stata in grado di sfruttarle perché il sequestratore l’aveva condizionata sin da quando era piccola. Le aveva fatto credere che il mondo là fuori fosse ostile - trascinandola nella sua paranoia ossessiva -, che i genitori non avessero voluto pagare il riscatto, che nessuno si ricordava più di lei, che nessuno le volesse bene perché era un’inetta, brutta, grassa, inutile ecc. e che se avesse tentato di fuggire lui l’avrebbe uccisa e avrebbe ucciso tutti quelli che l’avessero vista anche di sfuggita. Le aveva fatto credere che se avesse provato ad aprire una finestra, sarebbe saltata in aria perché aveva delimitato tutte le aperture di casa con la dinamite. Una bambina di dieci anni crede a tutto ciò che un adulto, anche il proprio aguzzino, essendo l’unico riferimento, le fa credere e una volta formatasi quella visione del mondo alterata e distorta, è molto difficile riprendere contatto con la realtà. 
Così è per gli animali. Essi non sanno nulla del mondo là fuori, eppure, come Natascha, sanno che vogliono fuggire da quelle mura in cui subiscono abusi di ogni tipo. 
In questi giorni di feste, nelle varie città d’Italia, si sono attendati molti circhi. Non andateci, non portateci i vostri bambini. Quegli animali che vi sembra si divertano ad eseguire stupidi esercizi, sono vittime di abusi di ogni tipo, tra cui la privazione del cibo e la prigionia costante. 
La libertà è un valore assoluto. Natascha se lo ripete costantemente. Ha sopportato di tutto, il dolore fisico e psicologico, la disperazione, la fame, il freddo, l’assenza di una vita normale, senza mai arrendersi, pur di riconquistarla. Per ogni istante di quei 3096 giorni si è ripetuta che doveva tornare libera. E ha aspettato il momento opportuno - una breve distrazione fatale del sequestratore, quando ormai era convinto che lei non sarebbe mai fuggita - per correre, correre, correre via, assaporando i primi istanti di libertà. Quello che fanno ogni tanto gli animali prigionieri, ma che purtroppo, trovandosi in un habitat ostile ed estraneo, non riescono a ottenere che per poco. 
Il racconto della prigionia di Natascha farebbe orrore a chiunque. 
Il circo, gli allevamenti, gli tabulari, gli zoo, non sono luoghi molti diversi da quello in cui lei è stata prigioniera. Identici sono i metodi per sottomettere e schiavizzare un individuo, identica quella follia di potere assoluto e dominio su un altro essere. 

2 commenti:

Anonimo ha detto...

CARA RITA, anche io sono molto colpita dalle storie di segregazione e come te spesso penso agli animali prigionieri.
Sono molto sensibile a questi temi perché ho vissuto da adolescente un complesso rapporto con una zia che viveva con me e che mi condizionava in ogni mia azione, senza darmi mai un attimo di tregua. Quando mi alzavo al mattino sapevo che appena avessi varcato la soglia della mia camera sarebbe cominciata la tortura psicologica, così che anche oggi che sono donna ormai più che matura , e ho vissuto una vita piena di soddisfazioni affettive, sento questa presenza oscura che mi minaccia e che determina la mia perenne inclinazione alla depressione. Ancora oggi quando mi alzo al mattino provo la stessa sensazione. Mi sento di dirti questo che appartiene alla mia vita più nascosta perché sei una persona in grado di condividere con me e questo mi rende felice. Jonuzza

Rita ha detto...

Cara Jonuzza,
non sapevo di questa triste vicenda, ma spesso nei tuoi scritti ho avvertito qualcosa di pesante e oscuro dentro di te. Purtrpppo certi condizionamenti rimangono a vita come ferite, specialmente quelli psicologici. E quando si è giovani e si vive insieme a una persona così ossessiva magari non si ha la forza (o la possibilità effettiva) di ribellarsi e nemmeno di capire la sua malattia, si tende cioè a introiettare certi comportamento come se fossero la normmalità e quella è la cosa peggiore, la vera gabbia mentale.
Ti ringrazio per aver condiviso con me questa storia che appartiene alla tua vita più nascosta, ne sono onorata. Ti abbraccio forte.