giovedì 8 dicembre 2016

La ricerca della felicità

(Immagine presa dal web)

È molto difficile convincersi che mangiare, imprigionare, allevare, sfruttare gli animali sia sbagliato quando tutto intorno a te ti dice costantemente che farlo è normale, specialmente se normale ha assunto la connotazione semantica di giusto, positivo, di comportamento corretto ed equilibrato (al contrario, quando si vuole dire a qualcuno che fa cose strane e poco conformi si usa l'espressione "tu non sei normale!").
Basta guardare la tv per cinque minuti per essere bersagliati da messaggi - diretti o subliminali - che rafforzano questo concetto. 
Nelle pubblicità tutti mangiano animali, nei documentari si vedono mucche e pecore al pascolo felici (ovviamente non viene mai mostrato quando vengono portate al macello una volta - dopo pochissimi anni dalla nascita - che la produzione di latte cala e nemmeno quando gli vengono strappati a forza i vitellini e gli agnelli o capretti per essere, lo stesso, mandati al macello dopo un tot mesi); nei film stesse scene di ordinaria banalità del male e così nelle strade: si trangugiano panini ripieni di cadaveri senza averne contezza, si indossano pellicce di vero pelo con nonchalance (io mi vergognerei come una ladra!) e si ripetono detti triti e ritriti in cui gli animali sono usati come paragone per denigrare, offendere, sminuire l'umano. Anche - anzi, soprattutto! - in politica. 

Eppure che gli animali siano esseri viventi in grado di provare emozioni, sentimenti e soprattutto sensazioni (hanno i sensi sviluppati anche più di noi, ma dipende poi dalle specie, c'è chi ha l'udito più raffinato, chi l'odorato, chi la vista e via dicendo) dovrebbe essere una nozione universalmente acquisita da chi ha un minimo di cultura basilare (basta anche la semplice conoscenza empirica), anche se tutto ciò viene continuamente spazzato via dalla mole di informazioni - appunto la normalità delle abitudini e tradizioni - che ne giustificano la reclusione, la schiavitù, il massacro.
Cos'è che ci rende tanto insensibili nei confronti di questi fratelli morfologicamente diversi da noi, ma non per questo meno in grado di sentire ed esperire la realtà?
Come si può giustificare il massacro, la violenza, il sangue, la reclusione forzata, la cattura, la tortura fisica e psicologica? 
Possibile che l'appello a una presunta normalità - ossia di comportamenti e abitudini conformi alle regole decise da chi vuole mantenere privilegi e poteri, quindi da chi vuole conservare un sistema basato sul dominio del vivente - sia così forte e suadente? Ma non vi viene mai voglia di ribellarvi? 

Possibile che viviate solo per mangiare tramezzini al prosciutto?

Sia chiaro, la ricerca di un'esistenza serena, anzi, gaudente, piena di cose che danno piacere, non è il fine di pochi, ma di tutti, eppure vi garantisco che si può vivere circondandosi di cose piacevoli anche senza sfruttare gli animali. 
Non c'è nessuna rinuncia, anzi, semmai c'è un tutto da guadagnare in termini di arricchimento intellettivo e interiore, ossia di pienezza esistenziale, quella pienezza e senso cui aneliamo sin da quando diventiamo consapevoli di noi stessi e del mondo e che, non trovando, cerchiamo di colmare inutilmente con palliativi come la fede, l'esistenza di dio o l'accumulo di denaro e oggetti fine a se stessi. E non si tratta di farsi asceti o di rinunciare ai piccoli piaceri della vita, che pure servono e sono necessari per decomprimerci un po' dalla pesantezza del vivere (che comunque è insita nella ripetizione dei giorni uno dietro all'altro): bisogna sfatare pure questo mito, quello dell'animalista sempre triste, sempre serio, che ha rinunciato a ogni piacere della vita e vive solo all'insegna della rinuncia. Non è così.
E comunque, la ricerca di una vita persino edonista può benissimo convivere con l'impegno sociale, etico e civile, anzi, non sono affatto in antitesi. 
Nel rispettare gli animali c'è un arricchimento interiore che da solo vale qualsiasi cosa. 
Il motivo è semplice: se mi trovo davanti un maiale e lo uccido per farne prosciutti, avrò un finto piacere effimero (finto poiché indotto) che dura due minuti (che tradotto significa: avrò arricchito le tasche di usa violenza su altri individui senza che sia necessario farlo), rendendomi complice e colpevole di un sistema di sfruttamento e dominio. 
Se mi ribello, mettendo in discussione questa presunta normalità e falsa libertà (che in realtà è solo bieco esercizio di forza e potere) farò di me un individuo veramente più libero e libertario, più consapevole, ma soprattutto contribuirò a liberarne tantissimi altri che, al contrario di noi, sanno esattamente cosa vorrebbero per essere felici: vivere senza catene, liberi, non più sfruttati dall'uomo.
E posso far finta di non saperlo, rimuoverlo, finanche negarlo, ma penso che sotto sotto lo sappiamo tutti che uccidere altri esseri viventi è sbagliato.
Vivere facendo una cosa giusta, che non arreca dolore agli altri, ci renderebbe più felici. Vivere nella negazione e rimozione, dissociazione e dissonanza, ci rende invece persone insane, malate, portatrici di infelicità per se stessi e per gli altri. 

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