venerdì 19 agosto 2016

Che ogni donna sia innanzitutto LIBERA

Saverio Tommasi fa un post sottintendendo un'analogia tra l'abito religioso indossato dalle suore e il burkini indossato dalle donne laiche nei paesi in cui è d'obbligo. Riceve migliaia di like.
Questo il mio commento, da cui prendo spunto per aggiungere alcune precisazioni:
"quindi secondo te è la stessa cosa indossare un abito religioso perché si è scelto di diventare una suora e indossare il burkini in paesi in cui le donne non possono concepirlo come scelta, ma solo come obbligo in quanto viene imposto? E ancora, secondo te è la stessa cosa decidere di indossare tacchi o meno nei paesi occidentali o il burkini in alcuni paesi teocratici come l'Arabia Saudita? La differenza - mi sento stupida a ribadirla, ma tant'è - è che se decido di non indossare il tacco dodici, nessuno mi condanna a trecento frustate; lo stesso non si può dire in quei paesi in cui l'abito che copre interamente il corpo è obbligatorio per le donne. Ma poi, fosse solo questione di abito... qui stiamo parlando (non nello specifico sotto a questo post, ma nell'allusione implicita nel tuo post che vorrebbe lanciare "un'originale" analogia tra l'abito religioso e il burkini) di donne che la libera scelta non sanno nemmeno cosa sia perché hanno introiettato gli obblighi di una società maschilista e teocratica sin dalla nascita."
Premessa questa enorme differenza, aggiungerei che tutti siamo in una certa misura schiavi della cultura in cui nasciamo, ma, precisiamolo ancora una volta, per quanto noi donne occidentali saremo pure vittime di un certo culto dell'immagine, di una certa idea del corpo e del vestire legata alla seduzione, siamo comunque libere, in ogni momento della nostra esistenza, di scegliere come andare vestite; ci sono poi questioni legate all'insicurezza personale, ossia molte donne avvertono di più le pressioni sociali e non si sentono sicure se non adeguano il loro abbigliamento al gruppo d'appartenenza (accade soprattutto nelle adolescenti), ma le dinamiche personali sono fatti ben diversi dagli obblighi di legge di un paese. 
Tradotto con parole semplici: molte donne saranno pure schiave della loro immagine che vorrebbero vedere in un certo modo - e spesso questo modo è quello che ci propinano i media - ma si tratta di una schiavitù e dipendenza di tipo psicologico su cui ognuna può lavorare per affrancarsene e di certo questa imposizione lavora in modo diverso da donna a donna, facendo leva su quelle che sono insicurezze personali o talvolta creandole; nel caso delle donne costrette invece per legge a indossare il burkini, si tratta di un'imposizione reale, concreta, punibile pesantemente. 
L'analogia quindi è del tutto inappropriata.
Inoltre, punto che mi preme in particolar modo specificare, ovvio che a queste donne che sono cresciute introiettando il dominio maschilista e teocratico si farebbe un'ulteriore violenza obbligandole a spogliarsi, quindi capisco che non possiamo vietar loro di indossare l'abito che considerano "normale" ("normale" esattamente come noi consideriamo "normali" certe pratiche di violenza che però non lo sono affatto); andrebbe quindi aperto un dialogo culturale teso a favorire delle aperture libertarie. 
Da donna, mi metto nei panni di queste donne e ne percepisco la fierezza talvolta di indossare questi abiti, fierezza che aumenta specialmente nel contesto di paesi diversi come quelli occidentali perché in questo modo l'abito diventa un marchio identitario, una sorta di corazza d'appartenenza alle origini da cui ci si sente protette e ci si appiglia come un salvagente nello sconvolgimento di un'esistenza che, a contatto con una cultura diversa, ha perso punti di riferimento. 
L'unica soluzione è il dialogo e l'apertura all'ascolto, ma anche, soprattutto, è importantissimo che non si perda la direzione libertaria intrapresa dalle battaglie femministe nei paesi occidentali perché non vorrei che per rispetto di altre culture vadano dispersi i risultati che abbiamo ottenuto versando lacrime, sangue e sudore.
Ad esempio sono scettica riguardo la legge francese che vorrebbe multare le donne che indossano il burkini in spiaggia perché un  divieto così coatto perché mi pare anch'esso un'imposizione, una sorta di duplice violenza su queste donne che non riescono a comprendere la nostra emancipazione e le nostre lotte libertarie. Penserei quindi, come detto e mi ripeto,  al dialogo, alla comprensione lunga e lenta, ma necessaria di un nuovo stato di cose: uno spiraglio di libertà che si apre per loro in un altro paese.
Altrimenti, passatemi il paragone, è come prendere un animale non umano che ha sempre vissuto in gabbia e liberarlo improvvisamente. Non è detto che sappia come gestire questa libertà, magari muore di shock. Ci vuole tempo, un periodo transitorio di recupero. La libertà va compresa.

Che ogni donna sia libera di vestirsi come vuole? Che ogni donna sia LIBERA innanzitutto, consapevolmente, e non mi pare che quella di alcuni paesi, come l'Arabia Saudita, possa dirsi tale. Per questo affermare: "il burkini è una loro scelta" suona tanto come una presa di posizione di grande ignoranza o superficialità in merito a un tema di una complessità enorme che è l'integrazione culturale e lo stare bene attenti a non perdere certi valori basilari, come appunto la libertà, in nome di un relativismo culturale che però non tiene conto dei diritti fondamentali delle persone. Ma anche il divieto coatto non può essere una risposta giusta perché si corre il rischio di causare quello che si chiama "shock culturale", con implicazioni psicologiche anche molto gravi.

P.S.:
Fondamentale è anche comprendere cosa sia esattamente il burkini perché la questione non riguarda solamente un tot di centimetri di stoffa in più o meno; bisogna capire cosa ci sia dietro questa imposizione che ha a che vedere con lo status ontologico della donna e del suo corpo in certi paesi, considerati alla stregua di un elemento tentatore e impuro che deve essere nascosto per non far indulgere gli uomini in pensieri peccaminosi.

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