mercoledì 23 maggio 2018

Addio, Philip


Con grande dispiacere apprendo della morte di Philip Roth.
Da quando l'ho scoperto, più o meno intorno al 2001, l'ho sempre considerato il più grande scrittore vivente. Oggi entra nell'olimpo dei più grandi, il suo posto è accanto a Dostoevskij, Kafka, Shakespeare, Mann e altri. 
Una morte che mi amareggia anche per un altro fatto: non gli hanno mai dato il Nobel, nonostante lo meritasse più di qualsiasi altro, perché non si era mai schierato a favore di Israele, anzi, da Ebreo, vedeva in modo critico la sua politica espansiva e guerrafondaia; e poi perché era irriverente e poco "politically correct".
Se non lo conoscete, vi consiglio alcuni sui romanzi: Pastorale americana, La macchia umana, Everyman, Il teatro di Sabbath, Nemesi, Lamento di Portnoy, L'animale morente, La controvita, La mia vita di uomo.

La sua poetica era profondamente esistenziale e laica. Disincantato, lucidissimo, ma non nichilista. Amava la vita e il sesso come unica pulsione capace di opporsi alla morte, alla vecchiaia, alla decadenza.

Nonostante io oggi lo legga anche in modo profondamente critico (i suoi personaggi sono abbastanza maschilisti e non di rado misogini), continuo a considera la sua prosa un esempio pressoché inimitabile e la sua lucidità nel trattare i temi dell'esistenza come più unica che rara.

Già nel 2012 aveva annunciato il suo ritiro, non avendo praticamente più nulla da dimostrare e da dire (ma non per mancanza di idee, bensì perché è stato uno scrittore molto prolifico); la notizia mi colse come una specie di lutto anticipato. Un lutto che oggi si è compiuto definitivamente.
Non mi resta che rileggere i suoi romanzi.

Di lui ho parlato in precedenza qui e qui e in altri post che sono rintracciabili sotto l'etichetta Philip Roth.

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