mercoledì 30 novembre 2016

Sfruttamento animale: una questione di rapporti di forza e di pregiudizi culturali


Un altro problema della questione animale è che non riusciamo a farci prendere sul serio. 
L'animalista viene ancora visto come l'esaltato estremista da un lato e il patosensibile affetto da troppo amore per gli animali dall'altro; e ancora: un perditempo, uno che anziché andare a lavorare o occuparsi di questione più serie si mette a fare banchetti e presidi per strada; un idealista ingenuo, uno che non accetta il mondo così com'è, non capisce che la vita stessa è violenza e vorrebbe vivere in un paradiso in cui tutti gli animali parlano tra loro come nei fumetti della Disney; un disadattato, uno che pensa che Woodstock non sia mai finito. E l'antispecista, invece? Non pervenuto. What's antispecista? Antiché? 
Come fare per farci prendere sul serio?
Certamente alcune baracconate non aiutano. L'altra sera stavo guardando dei video animalisti su youtube. Mi imbatto in un evento contro le pellicce in cui vedo tizi di mezza età, (ma fossero stati giovani sarebbe stata la stessa cosa) seminudi, in una piazza, in mezzo a fischi, urla, slogan triti e ritriti (sempre quelli da vent'anni: anì-mà-li lì-be-ri! anì-mà-li lì-be-ri! anì-mà-li lì-be-ri! e poi sàngue, sàngue, sùlle vòstre màni! sàngue, sàngue, sùlle vòstre màni! sàngue, sàngue, sùlle vòstre màni! e infine il sempiterno assàssìni! assàssìni! assàssìni!). Ma diosanto, un po' di originalità, ma fate un discorso, ma mettete insieme due frasi in cui spiegate per cosa state manifestando, ma perché rendersi ridicoli così?
Ecco, non c'è da stupirsi se poi le persone, imbarazzatissime, si voltino dall'altra parte e dicano "ah, i soliti animalisti". 
Questo tipo di attivismo qui non funziona. 

Dalla parte opposta, abbiamo gli antispecisti antifà, antisù e antigiù. Quelli che ogni volta che si parla della questione animale devono metterci in mezzo ogni altro tipo di lotta e ogni altro argomento indiretto, come se parlare degli animali e basta non fosse abbastanza nobile. E pure qui si va avanti con slogan del tipo "liberazione totale", "liberi tutti" e via dicendo. Roba che il tipo che non ha confidenza con un certo linguaggio politico ti dice "ma, esattamente, da cosa dovrei essere liberato io?". Perché non è vero che siamo tutti schiavi. Alcuni lo sono più di altri. E a chi lo è meno, fa comodo che le cose rimangano così. Il mantenimento dei privilegi fa comodo praticamente a tutti, tranne a chi non li ha, che però vorrebbe passare dall'altra parte e quando ci passa, schiaccia chi prima stava al posto suo e quando dico tutti intendo anche persone che non è che navighino nell'oro o abbiano chissà quali imperi, ma anche impiegatucci o operai che tutto sommato a fine mese ci arrivano e gli avanza pure la tredicesima per il televisore a 50 pollici. E questo discorso vale non solo nel microcontesto delle fasce sociali (se non vogliamo parlare più di classi), ma anche nel macro dell'occidente Vs il resto del mondo. E alla stragrande maggioranza delle persone le cose vanno bene così perché nessuno vuole rinunciare alla corrente (ci lamentiamo tutti delle guerre, però sia mai che rinunciassimo a quegli oggetti di uso quotidiano che vengono alimentati grazie al petrolio o che sono accessibili e acquistabili a prezzi modesti grazie allo sfruttamento di donne, uomini e bambini e a un massacro inimmaginabile - e lo è, inimmaginabile, poiché inquantificabile e sommamente crudele - degli animali). Si lamentano tutti del lavoro, delle poche ferie, del lunedì, dello stato, del governo, ma la verità è che non saprebbero immaginare una maniera diversa di vivere perché non saprebbero che farsene della libertà. 
Ecco, parliamo della libertà. Mai concetto è stato più distorto di questo. La libertà, una volta capito che dio non esiste e che non dobbiamo sottometterci al volere di nessuno, la si è incominciata a intendere come esercizio di potere. La libertà è la potenzialità di fare qualsiasi cosa. Puoi essere ciò che vuoi, puoi andare dove vuoi, puoi realizzare i tuoi sogni e essere felice in qualsiasi momento. Basta volerlo. Volere è Potere e via dicendo. Ecco perché anche il mangiare o meno gli animali viene inteso come una scelta personale. Io posso mangiarti, cioè ho questo potere, quindi sono libero di farlo.
Ora, il problema è che dicendo "liberazione totale" non si capisce bene che tipo di società vorremmo avere perché noi antispecisti non abbiamo un terreno comune condiviso e nemmeno tanto le idee chiare. C'è chi vorrebbe una società comunista con amministrazione collettiva dei beni e supervisione dello stato, chi lo stato non lo vorrebbe, chi pensa che, nel bene e nel male, pur con le sue distorsioni ed eccessi, tutto sommato il capitalismo e il liberismo economico siano meglio del comunismo o dell'anarchia. Poi ci sono i primitivisti, gli anarco-comunisti, i liberali anarchici e, boh, ognuno ha in mente il proprio ideale di società (io in questo momento ho le idee molto confuse, non ho difficoltà ad ammetterlo, perché sono sempre più convinta di una parte di natura irriducibile dell'homo sapiens votata alla sopraffazione e dominio).
Ora, quando si fanno questi discorsi, pur necessari, gli animali dove vanno a finire? L'unica cosa certa è che essi, in ogni istante, in ogni tipo di società, sono sempre stati ritenuti inferiori agli umani e sfruttati in ogni modo. Inutile negarlo: esiste un pregiudizio ontologico nei confronti degli altri animali. Da tempo immemore, ossia dall'inizio della storia dell'uomo, noi ci siamo visti, raccontati, trasmessi alle generazioni future, rappresentati - simbolicamente o meno - come altro dagli animali. E questa menzogna è talmente radicata in noi che non riusciamo a scacciarla dal nostro linguaggio e cultura nemmeno quando ci mettiamo d'impegno. Tutti noi, compresi noi antispecisti, riteniamo la vita dell'homo sapiens più piena di significato e valore rispetto a quella di un moscerino. 
Forse dovremmo fare un passo indietro. Ritrovare, come movimento, alcuni valori condivisi e non più negoziabili e da qui ripartire. Ce ne sono almeno due: azzerare l'antropocentrismo e la divisione ontologica tra noi e gli altri animali (in ogni ambito della nostra cultura, quindi agire su diversi fronti e cercare di fare breccia in ogni ambito); combattere lo sfruttamento istituzionalizzato, ossia ogni tipo di allevamento che riduce la vita degli altri animali a una risorsa in funzione degli interessi dell'umano, sia quelli di animali destinati a uso alimentare, sia quelli per l'abbigliamento (io non posso credere che ancora nel 2016 esistano persone che comprano le pellicce, ma tant'è; basta sfogliare una qualsiasi rivista di moda per vedere quanto siano diffuse) e poi la vivisezione, l'uso degli animali nell'intrattenimento, ossia circhi, zoo, delfinari ecc., il commercio di cani, gatti, conigli e altri animali cosiddetti "domestici". 
Ora, il problema è che per combattere queste strutture bisogna, da un lato far capire che la vita degli altri animali abbia un valore inerente - e quindi si ritorna al punto uno, cioè combattere l'antropocentrismo e azzerare la divisione ontologica  (perché inutile che facciamo vedere le sofferenze degli animali al macello se tanto le persone sono convinte che essi non si rendano conto, non abbiano coscienza,  non soffrano quanto noi e che quello dove si trovano sia, tutto sommato, il loro posto, in quanto esseri al nostro servizio in virtù di un ordine gerarchico apodittico, accettato e condiviso per definizione senza che vi sia bisogno di argomentarlo e dimostrarlo); bisogna poi, dall'altro lato, mettere in discussione anche l'economia della società nella sua globalità perché è ovvio che se tutta l'economia si regge sullo sfruttamento animale, bisognerà trovare un'alternativa valida che regga. 
Ma, prima di tutto, a me pare fondamentale mettere in discussione l'antropocentrismo e mostrare l'inconsistenza del pregiudizio ontologico sugli altri animali. Io penso che questo pregiudizio sia sempre esistito. Vero che l'uomo ha iniziato a sfruttarli perché ha capito che poteva farlo - poteva sottometterli, dominarli, schiavizzarli, legarli, bastonarli e questo suo esercizio di forza arbitrario è stato cruciale - ma ormai le cause e gli effetti si sono talmente intrecciati insieme da aver reso pregiudizio e forza un tutt'uno. Inestricabilmente connessi.
E se ci pensate bene, ogni forma di esclusione, discriminazione, ogni guerra, ogni genocidio hanno sempre avuto queste due componenti: forza e pregiudizio. La forza bruta (delle armi, quella fisica, quella del denaro, intellettuale ecc.) e il pregiudizio culturale come giustificazione. Ossia, tradotto in parole povere: schiavizzo l'altro perché posso farlo in quanto ho più forza di lui (posseggo un'arma, sono costituzionalmente più forte, intellettualmente più riconosciuto) e motivo la mia sopraffazione - giustificandola - dicendo che non devo sentirmi in colpa perché l'altro è più stupido, più cattivo, inutile e via dicendo. Che poi è il pensiero elementare e basilare di ogni tipo di violenza. L'abbattitore al mattatoio si ripete che il maiale è lercio e stupido, l'uomo che picchia la donna perché lei è troia e se lo merita, l'imprenditore che sfrutta il dipendente perché lui ha bisogno e non ha avuto le palle per mettersi in proprio (sfortuna, condizione di partenza diverse? Che importa? Il mondo è di chi se lo prende!), i nazisti che deportavano gli Ebrei perché erano solo "luridi topi di fogna" (e il topo di fogna era già assodato che fosse un rifiuto della vita per via della distinzione ontologica ecc..).

Dunque, riassumendo: bisogna agire sul piano culturale e su quello che regola i rapporti di forza. Finora abbiamo agito solo sul primo, tranne qualche azione d'eccezione che però non ha sostanzialmente modificato in maniera radicale il nostro rapporto con gli animali e con l'altro in generale. Ad esempio la grandiosa campagna contro Green Hill ha portato a casa un risultato enorme, ossia, la chiusura dell'allevamento, la liberazione di migliaia di individui e, sul piano giuridico, il divieto sul territorio italiano di allevare cani, gatti e primati destinati alla vivisezione: obiettivo che mette in difficoltà gli istituti e laboratori in cui si pratica costringendoli a farli arrivare dall'estero, con più spese, quindi, ma che di, fatto, non mette in discussione la pratica stessa. Almeno fino a quando a fronte di queste aumentate spese si controbatterà con i vari battage pubblicitari per la raccolta fondi a rimpinguare le casse della ricerca basata sulla sperimentazione animale. Vale a dire, quella di danneggiare chi sfrutta gli animali sul piano economico - quindi di fatto ribaltando i rapporti di forza - potrebbe essere una strategia che funziona. Ma è difficile attuarla perché chi viene colpito, che continua comunque ad avere più risorse di noi, reagisce avvalendosi del potere mediatico.  

Come cambiare quindi i rapporti di forza in maniera decisiva? È qui che dobbiamo lavorare, è su questo punto che dobbiamo riflettere. Cosa abbiamo in mano? Come fare per ribaltare le forze in gioco se chi le possiede ovviamente non concederà nulla e reagire a ogni nostro successo con sempre maggiore veemenza? E cos'è il potere oggi? Quello economico-finanziario, quello delle armi, quello della comunicazione? 
Rifiutiamo quello delle armi, forse possiamo ambire a quello economico e della comunicazione, che son strettamente legati. L'anima del commercio è la pubblicità, quindi la comunicazione. Ma cosa comunicare esattamente? E come? Basterà dirlo che gli altri animali sono intelligenti e che non meritano di essere calpestati? Non basta. Bisognerà intervenire a fondo sulle coscienze e sull'immaginario collettivo per abbattere ciò che è radicato? Per farlo ci vuole una prassi che rimodelli a fondo la nostra visione del mondo e dello stare al mondo. Ma intanto gli animali continuano a essere massacrati al ritmo di 5.000 al secondo e solo chi non si è mai rispecchiato nello sguardo del maiale appeso a testa in giù (non è retorica, è verità) può dire che possiamo aspettare e che ci vuole pazienza. Un discorso, anche questo, molto, molto antropocentrico. E se ci fosse tuo figlio appeso a quel gancio? E se ci fossero i tuoi genitori sui quei camion della morte? Diresti che bisogna aspettare? Son tutti pazienti, col culo degli altri.

Penso che danneggiare economicamente le strutture che sfruttano gli animali sia tutto sommato una strada percorribile. Come? Facendogli una cattiva pubblicità. Danneggiandone l'immagine. 
Che poi non sarebbe nient'altro che mostrarne il vero volto. 
E per far questo dobbiamo "conquistare" (ritagliarci pù spazi possibili, non inquinati dalla propaganda e dalla disinformazione di cui parlavo nell'articolo precedente) i mezzi di comunicazione perché i social forse non bastano. Anche se è vero che l'aumento esponenziale dei vegani è avvenuto negli ultimi cinque anni -  e considerando sempre quanto sia stato distorto il concetto di veganismo - non possiamo però dire quanto e in che misura abbiano realmente inciso i social. A me pare che i media ufficiali come tv e giornali mainstream siano ancora determinanti e che i social non facciano che rimpallarsene i contenuti, magari commentandoli in maniera critica, ma sempre comunque contenuti prima codificati e diffusi dai canali mediatici ufficiali al servizio del sistema di potere. 
Dobbiamo assolutamente ritagliarci spazi non inquinati dalla disinformazione. O fare in modo che essa appaia in maniera talmente palese da essere messa a nudo e così neutralizzata. E parlare alla collettività. A tutti. In maniera semplice, ma senza banalizzare la questione animale.

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